Rivedere il rapporto tra lavoro e vita
Avete mai camminato al buio? Sapete che il rischio di andare a sbattere è elevato. Da qualche mese a questa parte ci troviamo a vivere una situazione di incertezza. È un’entità invisibile — il virus — a imporci l’oscurità.
Il nostro sguardo verso il futuro è sfocato. Siamo ciechi e l’impegno che mettiamo in campo si concentra esclusivamente sul successivo passo, nel tentativo di non inciampare. Per non farsi troppo male, pur facendosene già abbastanza. In questo contesto si protrae — indefinito — lo stato di eccezione a cui faceva riferimento Simone Casalini, in un editoriale apparso su questo giornale nei giorni scorsi. Il sistema sanitario boccheggia, la tenuta sociale vacilla, l’azione politica latita.
Una mancanza, quest’ultima, che pesa in modo particolare di fronte al riproporsi della complessità del reale (che avevamo rimosso) e della non linearità dei processi globali. Nell’eccezionalità del momento possono dispiegarsi le dinamiche del conformismo, o trovare terreno fertile le condizioni per il cambiamento, partendo dalla consapevolezza diffusa dell’urgenza di immaginare un modo nuovo di stare nel mondo.
A poco servono le mappe a colori delle regioni italiane se a diffondersi come osserva Ilvo Diamanti è un’omogenea «zona grigia» privata della socialità e del confronto, impaurita e stanca.
Che fare quindi? Come ripensare l’esistente non per ripartire ma per ri-nascere? Ci servono dati — tanti, buoni e aperti — e capacità evolute per analizzarli, rendendoci così più bravi nelle diverse operazioni di tracciamento. Per tracciare la malattia in primis. In attesa del vaccino è necessario rinunciare a pezzi delle nostre abitudini socializzanti, riducendo così le opportunità di ammalarsi. Uno sforzo di comunità a tutela di ogni singolo.
Con numeri meno drammatici rispetto a quelli delle ultime settimane andrà poi raccolta la doppia sfida di elaborare una fotografia più precisa del contagio e di procedere al rafforzamento dei presidi di medicina e cura, con attenzione particolare alle loro articolazioni di prossimità.
Parallelamente servirà tracciare le linee di faglia della sofferenza sociale. Una crisi planetaria di tale portata genera tensioni spurie frutto di fragilità diffuse. Oltre i decreti ristoro serviranno altri strumenti di welfare per agire dentro uno scenario così articolato e frammentato. Non solo strumenti compensativi rispetto alle perdite subite nel periodo della pandemia ma la revisione complessiva del rapporto tra lavoro (e non lavoro) e vita, lì dove è interessante che da più parti l’esigenza di un reddito universale venga segnalata come non più rimandabile.
In questa fase di transizione vanno alimentate le vertenze (basti pensare alla battaglia dei rider sulle forme contrattuali nel campo del delivery) e abitate le alleanze che studiano e propongono politiche trasformative (il Forum Diseguaglianze e Diversità ne è il migliore esempio).
Impossibile da slegare dalle due azioni che ho fin qui descritto è però uno sforzo di tracciamento politico. Federare i fermenti attivi. Riconoscere, ascoltare, interpretare e muoversi curiosamente dentro il formicolio che agita i territori. Includere i corpi estranei, i troppi e diversi esclusi da meccanismi partecipativi ancora insufficienti.
Sentirsi movimento dei movimenti alla ricerca di una rappresentanza comune. Riconnettere per ri-mediare la società. Questo è il nostro compito primario. Dobbiamo essere animatori guidati dall’urgenza di pensare e agire. Pungoli aguzzi e «fastidiosi». Trovo perfetto questo appellativo (un complimento) che il New York Times riconosceva a donne che — tra loro la militante e urbanista Jane Jacobs — «tirano la Storia per la giacca senza mai arrendersi», applicando nelle loro vite una costante opposizione alle ingiustizie e una spinta decisiva per l’apertura di spazi di opportunità. Perché questa crisi non vada sprecata serve che emergano nuove leadership, luoghi dell’attivismo e dell’organizzazione politica, paradigmi di riferimento di sufficiente forza da rigenerare dalle basi la convivenza democratica.
Le diverse opere di tracciamento nascono da questa consapevolezza d’insieme, dall’urgenza di ritrovare il filo del discorso e della pratica pubblica.