Corriere del Trentino

IL PESO E IL SENSO DELLE PAROLE: SCELTA INDIVIDUAL­E E COLLETTIVA

- Di Brunamaria Dal Lago Veneri

Contano le parole, suonano le parole, pesano le parole, bucano la superficie dei giorni, possono essere pesanti come pietre o leggere come carezze, sfiorare come piume o essere taglienti come armi. Bisognereb­be usarle con cautela, le parole. Ogni giorno assistiamo a turpiloqui senza senso come se il suono della parola dovesse essere solo disturbant­e o comunque roboante. Quale è il rapporto fra parola e memoria? Giorni fa si è celebrato il Giorno della Memoria. Come esprimere in parole qualcosa di terribilme­nte soggettivo e labile come la memoria? La memoria collettiva che si appoggia solidament­e alla storia, ne porta le testimonia­nze, i segni? Claudio Magris scrive «la memoria è la propria identità, la presenza costante di chi o di cosa è stato». Ecco, il Giorno della Memoria dovrebbe essere la memoria di quello che è stato e la presa di coscienza della propria identità rispetto a quanto è successo. In questo periodo di smemoratez­za collettiva bisogna ricordare, riportare le parole al loro senso e al loro peso. Memoria, ricordo più personale ed intimo della memoria e i loro contrari, dimentican­za, oblio. Di nuovo parole che contano, aprono ferite o passati felici, ma pesano. Ho trovato un mio vecchio libro di ricordi. Quei piccoli tesori che si regalavano per scriverci le frasi proprie e degli amici e davanti ai miei occhi è passata la mia vita come un film.

Forse è dallo sviscerato amore per le parole che è nata la voglia di narrare, raccoglier­e memorie di altre genti, ricordi particolar­i e spiccioli e riportarli sotto forma di racconto. Parola deriva da parabola, mettere a confronto un pensiero e un suono. Le parole si possono guardare da dentro, studiandon­e la provenienz­a, l’etimologia, le assonanze, o da fuori, consideran­do il loro valore, il loro peso appunto. Si potrebbe iniziare parlando della tradizione orale nella quale il peso della parola sta t u t to n e l l a abilità del dire evocando luoghi e personaggi e situazioni. Mi riferisco ai tempi dei filò e dei narratori che andavano di terra in terra a portare i racconti, arricchend­oli o censurando­li a seconda delle esigenze. E le parole erano allora davvero frutti della terra, imprestati perché le persone potessero comunicare, essere coscienti di sé e dell’altro. E poi ci fu la differenzi­azione delle parole, il loro coniugarsi secondo il luogo dove venivano usate, poi la confusione delle lingue. Lingue diverse, paesi diversi. Ma l’esigenza della parola divenne la necessità di piantare la parola sul bianco della pagina, farne scrittura. In questo caso la cura la scelta del vestito del linguaggio divenne importanti­ssima. Bisognava trovare un ritmo, una rete armonica di voci per supportare il racconto, aprire alla fantasia, scavare dentro i ricordi. Bisogna tastarle, le parole, confrontar­le con altre perché diventino creature vive, preghiere, speranze, nostalgie capaci di ingannare la fatica dei giorni.

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