Senza mediazione culturale resta la violenza
P arafrasando
il titolo dell’indimenticabile film di Truffaut «Il ragazzo selvaggio»(1970), storia vera e crudele di un fanciullo vissuto allo stato animalesco nei boschi dell’Occitania nel lontano 1798, in questi giorni ci sentiamo un po’ tutti selvaggi, diseredati, imbarbariti, anche noi ex giovani invecchiati,ormai boomer. I manganelli della polizia contro gli studenti a Pisa, medici assaliti e pestati dentro gli ospedali, molestie ripetute e abusi sessuali contro le donne in ogni ambito, aggressioni agli insegnanti da parte di genitori e alunni dentro le nostre scuole, bullismo, intimidazioni, violenza: pur assai diversi tra di loro per natura e cause, questi episodi hanno al fondo uno stesso retroterra, un’unica possibile chiave di lettura, cioè una sostanziale e perniciosa ignoranza.
L’ignoranza è sempre incinta, gravida di aberrazioni e devianze, umane e sociali, matrigna di(quasi) tutte le suddette forme di violenza e di altre schizofrenie, private, famigliari, di piazza. La violenza è sempre «vis»,tendenza primordiale a risolvere i problemi della convivenza facendo ricorso a mezzi di offesa, fisica e morale, a sevizie, corporee o psicologiche, è quell’uso della forza che attesta la nostra più ancestrale animalità, la testimonianza del nichilismo umano, l’ospite inquietante che dalle origini, in veste diversa, frequenta il nostro vivere quotidiano, l’aria che respiriamo, quell’angoscia che scandisce le relazioni, lo spaesamento per cui viene meno ogni valore collettivo, qualsiasi finalità sociale, in buona sostanza la latitanza di cultura. Ignoranza, dunque, nella sua accezione più vasta e radicale, proprio perché, in ogni caso, la conoscenza è la primaria condizione di libertà, cioè senso di liberazione da ogni analfabetismo, anche quello affettivo ed emozionale, laddove, specialmente per le giovani generazioni, nasce poi il disagio più grave, non solo psicologico ma soprattutto culturale. Ed è proprio su questo piano che più si evidenzia il fallimento della scuola, negli attuali esiti di ignoranza collettiva e incapacità di riflessione, mentre invece, proprio l’educazione scolastica potrebbe costituire un forte baluardo contro la violenza sociale generalizzata del nostro tempo, una scuola che forse prova a istruire ma certamente non riesce più a educare, a formare i liberi uomini di domani. Quando, purtroppo, la scuola viene (s)travolta dalla smania produttivistica e sopravvive solo nell’immediatezza delle prestazioni allora essa non solo non aiuta a pensare ma potrebbe addirittura divenire uno dei tanti luoghi di informazione dove si scambia per cultura l’abilità di smanettare sulla tastiera del computer, insomma una scuola della quantità senza qualità, quasi un allegro circolo New-age piuttosto che un’istituzione socio-culturale alla ricerca del sapere, del potere «terribile» della parola. È la parola (verbum) che parla e ci parla, ed «emarginazione/alienazione» è esattamente il termine che può spiegare la condizione di coloro(specie fra le più giovani generazioni ma non solo) che rischiano di rimanere senza cultura, senza linguaggio. Quindi, senza una complessa mediazione culturale non rimane che la violenza, perché non esiste salvezza sociale al di fuori di quella offerta dall’educazione, non esistono illusori paradisi di purezza: è davvero «libero» solamente chi sa far uso del «liber», e dove manca padronanza della parola non esiste pensiero complesso ma solo primitiva schematicità. Se è vero, come ha commentato Antonio Scurati, che l’intera nostra società sembra remare contro la scuola, e che «gli influencer sono diventati più importanti degli insegnanti e della scuola stessa», allora davvero ci avviamo a essere uomini privi di identità,«siamo gli uomini vuoti, siamo gli imbalsamati, con la testa piena di paglia, e sarà questo il modo in cui finirà il mondo...» (S.T.Eliot).