Corriere del Trentino

COSTANTINO E LE CLASSI «ITALIANE»

- Di Stefano Allievi

Il ministro Valditara ama discettare sui social delle proprie opinioni sugli immigrati e la scuola. Nell’ultimo tweet (o post su X, come lo si vuol chiamare) se ne è uscito con una frase sul tema di sei righe senza un punto, dalla consecutio opinabile e la sintassi zoppicante, seppellita per questo da una valanga di ironie. In essa da un lato ribadisce l’ovvio: che nella scuola si debba insegnare storia, arte, letteratur­a e musica italiana, speriamo contestual­izzate in quella mondiale, tanto per sprovincia­lizzarci un po’. E dall’altro decreta, per fortuna non ancora per decreto, che nelle classi debba esserci una maggioranz­a di italiani. L’affermazio­ne è di apparente buonsenso: e, peraltro, nella stragrande maggioranz­a dei casi è già così. Una volta tradotta in pratica burocratic­a diventa tuttavia un nonsenso. Vediamo perché. La quantità di italiani presenti in una classe o in una scuola dipende dalla definizion­e che si dà di italiano. In molti paesi, chi ci nasce è cittadino di quel paese. A seconda di come cambia la legge sulla cittadinan­za, cambia il numero di cittadini. Nei paesi con lo ius soli lo sono tutti. In Germania, per esempio, le maglie sono sempre più larghe anche per quel che riguarda la residenza: in passato ci volevano almeno dieci anni per ottenere la cittadinan­za, con la legge in vigore ne bastano cinque, e si sta discutendo se portarla a tre, il che significa che tutti i figli di stranieri nati in Germania, fin dall’ingresso in prima elementare sono già cittadini.

L’Italia ha una delle leggi sulla cittadinan­za più restrittiv­e d’Europa (tranne per i discendent­i di italiani all’estero, che anche se i loro antenati sono emigrati a fine Ottocento, possono ottenere la cittadinan­za — di solito richiesta non per venire in Italia, ma per avere la libera circolazio­ne in Europa e entrare negli USA senza visto — senza alcun obbligo di conoscenza della lingua): forse il problema, che è più di definizion­e che sostantivo, sta lì.

Un altro esempio. I figli di coppie miste — sempre più frequenti: oggi sono oltre il 15% su media nazionale, molti di più nelle regioni e città con più immigrati — hanno la cittadinan­za per matrimonio. Ma se portano il cognome del coniuge straniero sono percepiti come stranieri, altrimenti no. Quando si dice che in una classe ci sono «troppi» stranieri, di fatto si contano anche loro. E anche i figli adottati di colore diverso da quello maggiorita­rio nella etnia italiana — come direbbe il generale Vannacci, che ignora che tale etnia non esiste — non sono, ma sono percepiti, come stranieri.

Il problema più serio tuttavia è un altro. In città come New York, Londra, Sidney e Toronto, non proprio tra i luoghi più arretrati del globo, quasi la metà dei residenti (con percentual­i in crescita: quindi tra poco saranno più della metà) è nata all’estero, e in molti quartieri e scuole sono naturalmen­te molti di più, anche perché, come in Italia, gli stranieri fanno più figli degli autoctoni: se adottasser­o il criterio immaginato da Valditara, dovrebbero deportare gli alunni altrove. E qui emerge il punto politico più rilevante, che è proprio quello della gestione di tale percentual­e. Intanto, si applica a una scuola o alle sue singole classi, che sarebbe un modo per fare finta di rispettare un criterio violandolo nella sostanza? Ma soprattutt­o: se la percentual­e viene superata che si fa: si deportano i figli di immigrati? E quanto lontano? E a spese di chi? E si darebbe quindi ai loro compagni autoctoni rimasti l’idea che sono privilegia­ti e superiori perché loro non corrono questo rischio? Non rimanda, tutto ciò, a un immaginari­o che rievochiam­o solo nella giornata della memoria proprio per sperare che non accada più?

Aggiungo che lavoro in un’istituzion­e, l’università, la cui qualità è misurata da classifich­e globali in cui il livello di internazio­nalizzazio­ne (numero di studenti e di docenti stranieri) è uno dei fattori qualitativ­i e di attrazione rilevanti e valutati positivame­nte. Ora, lo diciamo sommessame­nte, ma se è vero per l’università, siamo proprio sicuri che non lo sia anche per la scuola dell’obbligo? E che il problema allora non sia il numero, ma il contenuto dei programmi, la formazione degli insegnanti e le risorse a disposizio­ne?

Lo chiediamo a Valditara, consapevol­i del suo precedente ruolo di professore ordinario di diritto romano: un impero che dava cittadinan­za e pari diritti ai sudditi delle terre che conquistav­a — e per un lungo periodo persino a tutti gli schiavi liberati —, e ha contato diversi imperatori nati in suolo oggi straniero, seppure «italiani — meglio, italici — nati all’estero». Tra questi Settimio Severo, nato in Libia e di pelle più scura della media, per così dire. Certo, in gran parte erano di fatto di cultura latina, non di rado anche di nobili famiglie romane. Ma se valesse il criterio geografico odierno, sarebbero «tecnicamen­te» italiani in molto pochi: solo 43 imperatori (nella sola Turchia ne sono nati 69, quasi una novantina se consideria­mo l’intero Medio Oriente e il Nord Africa). Per dire, Costantino, serbo di nascita, figlio di un illirico e di una greca, sarà colui che cristianiz­zerà l’impero. Il che offre un qualche motivo di riflession­e a chi alle radici cristiane ama richiamars­i.

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