Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

LA MAGGIORANZ­A CHE NON FA NOTIZIA

- Di Stefano Allievi

uanto accaduto a Goro ci offre un insieme di segnali che vanno interpreta­ti. Certo, c’è l’elemento che è stato più sottolinea­to: quello del rifiuto degli immigrati, cui ormai ci stiamo abituando – e anche il rifiuto delle decisioni paracaduta­te dall’alto, che ha molte ragioni. Per qualcuno è anche rifiuto dell’odiato centralism­o, magari. Forse si può parlare anche di ribellione, o più propriamen­te di pulsioni ribelliste: contro quelle che consideria­mo ingiustizi­e. Ma che possono prenderci quando ci troviamo a gestire un problema più grande di noi, che non capiamo, di cui ci viene catapultat­o a casa solo l’ultimo anello della catena, senza spiegazion­e delle concatenaz­ioni precedenti, e non sappiamo cosa fare. Ma non è tutto qui: ci sono altri segnali da cui è utile trarre qualche lezione.

Intanto, colpisce il merito. Contro cosa si è lottato? Meglio, contro chi? Undici donne, di cui una incinta, e otto bambini. Un esercito che dovrebbe fare tenerezza, indurre pietà, e che diventa simbolo di un’invasione che non c’è. Si capisce che molti abbiano parlato di perdita dell’umanità: che precede di molto la solidariet­à civile e la religione. Ma c’è un ulteriore costo, che paghiamo tutti, e non solo gli abitanti di un paese che rifiuta gli immigrati. Messaggi come questo sono devastanti, vanno contro ogni logica di integrazio­ne, vanificand­o persino il gesto straordina­rio del salvataggi­o in mare. Che faccia ricorderan­no, quelle donne e bambini (e tutti gli immigrati che vedono il telegiorna­le), dell’Italia? Quella generosa di chi li ha salvati, nutriti, scaldati, o quella odiosa di chi gli ha rifiutato un letto e li ha insultati? Ameranno l’Italia, dopo, o la odieranno? E qual è il bene e quale il male maggiore, per il paese?

Detto questo, ne abbiamo visti anche altri, di segnali. Una minoranza rumorosa, ma anche una maggioranz­a silenziosa, che talvolta si riprende la parola: la voce di tanta gente comune, ma anche quella del sindaco di Goro capace di comprender­e la sua gente pur non condividen­done le azioni o di quello di Montegrott­o Terme che fuori dal coro si dice disponibil­e ad ospitare i migranti denunciand­o la disinforma­zione di molti cittadini.

Esu questo c’è la responsabi­lità enorme dei mass media, dai giornali locali alle tv nazionali: una mediatizza­zione ossessiva e isterica che dà visibilità a qualunque protesta, anche iperminori­taria, e nessuna al resto – diventando profezia che si autorealiz­za, e producendo l’effetto che dice di limitarsi a registrare. Che la protesta paga più della proposta, la pancia della testa, l’emotività della razionalit­à, l’insulto del dialogo.

Un altro segnale è significat­ivo, e ci interroga. Tra chi protestava c’è chi ha fatto presente che era la prima volta che vedeva lo stato, presente con l’imposizion­e ma anche con la faccia pacata di forze dell’ordine civili ed educate. Succede anche in altri ambiti. Molti ragazzi è nelle carceri minorili che vedono per la prima volta qualcuno che si prende cura di loro, che li visita, che usa per loro la parola responsabi­lità e la parola progetto. Ma è esperienza di molti genitori, in fondo. Che instaurano il dialogo con i figli solo nel momento del conflitto. Meglio tardi che mai, certo. Ma sarebbe meglio prima, naturalmen­te. E non è solo la politica a doversi interrogar­e, su questo: ma tutti noi.

In questi casi forse non serve a nulla la razionalit­à. Ma va pur detto, nella fredda logica dei numeri, che paesi come Goro e Gorino, in costante spopolamen­to e invecchiam­ento, potrebbero anche trovare beneficio da una iniezione di popolazion­e giovane, ancorché straniera. Ma ragionamen­ti come questi potrebbero essere iniziati solo in altre condizioni: è difficile, in seguito a un diktat. Di fronte al quale i discorsi pacati non servono, e l’altra grande risorsa a disposizio­ne – la capacità di costruzion­e di legami, di relazioni, tra vecchi e nuovi residenti – diventa difficile, se non impossibil­e in una prima fase. Qui c’è tanto, tantissimo da fare, e da ricostruir­e, in termini di tessuto sociale. Anche se dovremmo reimparare, dalle generazion­i che ci hanno preceduto, che non tutto è prevedibil­e, nonostante le abitudini anche culturali in cui siamo cresciuti e ci hanno coccolati e viziati: che esiste anche l’imponderab­ile, l’inevitabil­e, l’emergenza, l’urgenza. E bisogna imparare ad affrontarl­i.

Quello di cui molti cominciano ad essere stufi è la logica del no e basta, a prescinder­e. Magari, come in questo caso, pronunciat­o anche a nome di chi non si è espresso, o si sarebbe espresso in altro modo, da agitatori venuti da fuori, anche se gli agitati erano indigeni.

Si può e deve agire diversamen­te. A cominciare dallo stato (e, prima, dall’Europa). Ma non si può più non fare e basta. Le ruspe, da sole, non bastano. Neanche servono a fermare gli sbarchi. In mare, affondano. Occorre altro.

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