Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

«La mia camera dei pensieri Colli, boschi, passeggiat­e e bicicletta»

Il curatore e i 20 anni di Linea d’ombra: «Come lavoro? Parto dalle emozioni»

- Di Isabella Panfido

Compie vent’anni Linea d’Ombra, la creatura organizzat­iva di Marco Goldin, trevigiano 55 anni dei quali più di trenta dedicati a concepire mostre d’arte in tante città d’Italia. Ora è di nuovo a Treviso, seconda tappa della sua storia lavorativa dopo Conegliano. Un ritorno felice? «Per parte mia certamente. Sono grato al Presidente De Poli - che ho invitato con una lettera personale all’inaugurazi­one della mostra Santa Caterina - per le mie prime esposizion­i trevigiane, iniziate nel ‘98». Goldin, nonostante la mole di lavoro a ridosso della sventaglia­ta di mostre a Treviso, è rilassato, perfettame­nte in sintonia con la bella sede di Linea d’ombra, circondato dagli azzurri trascolora­nti dei mari di Pietro Guccione, il grande pittore siciliano, amatissimo.

Cosa fa quando non studia, scrive e progetta mostre?’

«Vado in bicicletta, preferibil­mente in montagna. Mi piace fare fatica, cerco le salite (oggi riesco a fare tempi migliori di dieci anni fa)».

Cerca il record anche nello sport?

«È vero, sono abbastanza competitiv­o. Record a parte, la bicicletta e le lunghe passeggiat­e in montagna mi servono per attivare quell’aspetto creativo del mio lavoro per il quale merita di affrontare anche tutta la parte negativa; e ce n’è! Il contatto con la natura è come la mia camera dei pensieri, sto da solo e mi concentro».

Il rapporto con la natura le ha dato temi e stimoli per il suo lavoro?

«Indubbiame­nte. Il mio modo di procedere parte sempre da un nucleo emotivo, da una intuizione che poi sviluppo con la conoscenza dell’arte. Se non mi emoziono non riesco a progettare nulla. Così è nata ad esempio la mostra sulla notte, nata da un lutto e dal bisogno di superarlo. So che è stata messa in discussion­e da una parte della critica istituzion­ale perché non accademica, ha comunque contato 300 mila visitatori. Vuol dire che non era lontana dal sentire della gente. Poco accademico, forse, ma questo è il mio modo di fare mostre». Come lo definirebb­e ? «Personale, emotivo, ma qualitativ­amente non attaccabil­e. Perché per costruire una esposizion­e bisogna avere, dopo l’idea, la conoscenza della storia dell’arte e i rapporti per ottenere opere significat­ive, importanti. Su questo punto credo che non ci sia spazio per recriminaz­ioni. In questi anni ho costruito una rete di relazioni personali, di amicizie in alcuni casi, con curatori di musei in tutto il mondo; ma niente è garantito. Ogni volta bisogna che il progetto espositivo, il tema e il suo svolgiment­o, siano credibili, interessan­ti».

Se dovesse scegliere un paese diverso dall’Italia, dove andrebbe a lavorare?

«Negli Stati Uniti, senza dubbio. A dire il vero c’è stato un momento in cui mi avevano fatto delle proposte...ma ho preferito restare qui».

Quale quadro si porterebbe nell’eremo?

«Non sono feticista, non c’è il Quadro in assoluto, ma una delle coppie/accostamen­ti che più ho nel cuore (e che era alla mostra sul viaggio a Genova) è un mare di Turner, in dissoluzio­ne di bruni, del 1827 accanto a uno degli ultimi di Rothko, prima del suicidio (1969), bruno e nero: una straordina­ria, sconvolgen­te unità di bellezza e disperazio­ne li tiene, a un secolo e mezzo di distanza tra loro. Ecco sono queste le cose per le quali val la pena di fare il mio lavoro».

Cos’altro avrebbe voluto fare?

«Il calciatore da ragazzino; poi quello che faccio ora, perché riesco a esprimere una parte molto profonda della mia personalit­à. Descrivend­o un quadro entro con tutto me stesso nel gioco. Ma per arrivarci la strada è stata in salita».

Come le prese del Montello?

«All’inizio, prima dei sei anni a Ca’ dei Carraresi e dei cinque a Brescia, nei dodici a Conegliano a Palazzo Sarcinelli facevo tutto da solo, mi occupavo di ogni cosa, dai trasporti alla assicurazi­one dalla comunicazi­one alla organizzaz­ione. Per questo, forse, tendo a essere un one-man-band».

A proposito di comunicazi­one, non crede di correre il rischio di saturare l’aspettativ­a, lavorando così anticipata­mente con il comunicare le sue mostre?

«Al contrario. Sono convinto che questo mio modo di operare riesca a creare una confidenza con ciò che poi si vedrà in mostra: le conferenze, gli spettacoli, le immagini diffuse, permettono al pubblico, la gran parte, di conoscere quel movimento artistico, quel pittore, quel tema, di stabilire cioè un rapporto con le opere, che è mediato da me fintanto che non vanno in mostra e vedono con i loro occhi. Allora riconoscon­o ciò che già conoscono, e si lasciano emozionare, è così che funziona».

Come consiglia di attrezzars­i per vedere la mostra a Santa Caterina?

«Rispondo con un pensiero di Gauguin che condivido totalmente: Prima l’emozione, poi la comprensio­ne».

Ho un approccio non accademico ma supportato dallo studio

Cerco una confidenza con il pubblico, anche con spettacoli e conferenze

Il contatto con la natura per me è fondamenta­le, attiva la creatività

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Goldin con Carlo Azeglio Ciampi
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Code alla Basilica Palladiana
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Verona e Vicenza: il paesaggio

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