Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Ritratti e silenzi
Tre sale e 24 opere per indagare il percorso della figura. Ingres, Degas, Gauguin: il romanticismo si trasforma nel racconto della vita. Realismo e interni borghesi
Afferma Gustave Courbet: «La pittura è un’arte essenzialmente concreta e può consistere soltanto nella rappresentazione delle cose reali». Dice Paul Gauguin: «L’arte o è plagio o è rivoluzione». Tra Courbet e Gauguin l’Impressionismo. Il percorso della mostra ideata da Marco Goldin sulle tante «Storie dell’impressionismo» inizia in maniera inusuale non con i paesaggi bensì con un’ampia sezione sul ritratto: «Mi piaceva l’idea - spiega il curatore trevigiano - di aprire questa porta con passione, contatto con la vita, quotidianità; perché anche nelle figure l’impressionismo lascia i suoi segni, molto più di quello che si pensi».
La sezione de «Lo sguardo e il silenzio. Percorso del ritratto da Ingres a Degas a Gauguin» è costituita da tre sale e 24 opere. A far da prologo a questa cavalcata nell’arte francese del XIX secolo il neoclassico Jean-Auguste-Dominique Ingres. Non quello dei quadri sfarzosi della maturità, quanto piuttosto quelli della ritrattistica giovanile, che si pongono come uno spartiacque tra il ritratto celebrativo e un ritratto di maggiore approfondimento psicologico. Il Ragazzo con l’orecchino (1804, Musée Ingres, Montauban) e il Ritratto di Belvèze-Foulon (1805, Musée Ingres, Montauban) fanno parte di un gruppo di ritratti intimi, legati agli amici d’infanzia e alla giovinezza, improntati sulla ricerca di un equilibrio fra l’idealizzazione del modello e la rappresentazione realistica. A far compagnia ai due dipinti la copia dell’autoritratto di Raffaello (1820-1824, Musée Ingres, Montauban), fedele al celebre ritratto conservato nella Galleria degli Uffizi, a mostrare il nume tutelare di Ingres. Si entra in un’altra dimensione col Ritratto di
George Sand (1838, Ordrupgaard, Copenaghen) di Eugène Delacroix: romanticismo e colore sono le note nuove di questo autore molto amato da quel Vincent van Gogh che metterà proprio il colore al centro del suo universo pittorico. Con Mère Grégoire (1855-59, The Art Institute of Chicago), uno dei ritratti più importanti del maestro del realismo e dello studio psicologico della realtà Gustave Courbet, si penetra dentro il racconto della vita. Non c’è più spazio per l’epicità. Guardando questo dipinto vicino al Ritratto di un bambino della famiglia Lange
(1861 circa, Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe Karlsruhe) di Édouard Manet e il Ritratto di
Madame Lisle e Madame Loubens (1866-1870, The Art Institute of Chicago) di Edgar Degas, vediamo delineato il percorso della mostra: dal realismo ai germi che porteranno agli esiti impressionisti fino alle soglie della modernità. Se le tonalità di colore sono le stesse, nell’opera di Degas il passo compiuto è enorme, con le due donne collocate all’interno di uno spazio segreto dalle pareti arancio astratte. L’interiorità è nello sguardo che nasce dalla quotidianità incontrando il tempo assoluto.
Ma intanto, coesistevano altre pitture. Come quella del misurato Henri Fantin-Latour, qui con Ritratto di Eva Callimachi-Catargi (1881, Kröller-Müller Museum, Otterlo); o di Pierre Puvis de Chavannes, in mostra esemplificata con La Vigilanza (1867, Scottish National Gallery, Edimburgo) dallo stile decorativo e dai pallidi colori. È solo di un anno dopo Il clown (1868, Kröller Müller Museum, Otterlo) di Pierre-Auguste Renoir, col pittore che scegliendo di ritrarre questo pagliaccio prende la decisione audace di dipingere la vita moderna. Ci addentriamo negli anni dell’arte di quegli impressionisti che, come afferma Émile Zola in uno scritto del 1880 «vanno verso l’avvenire».
Ancora Renoir, in una delle prove più alte dell’intera carriera del pittore nell’ambito della ritrattistica, Mademoiselle Irène Cahen d`Anvers (La piccola Irene) (1880 Zurigo, Stiftung Sammlung E.G. Bührle, Zurigo), scelta da Marco Goldin come immagine-guida della mostra a Treviso: una bambina di otto anni, girata di profilo, con un luminoso abito azzurro - l’abito della domenica - e uno scenografico fondale di
foglie che fa da quinta e contrasto all’arancio dei vaporosi capelli. Lo sguardo sognante e colmo di speranze della fanciulla e la posa naturale, non celebrativa, ne fanno l’emblema del ritratto impressionista. Pensare che questa rappresentazione sia stata così poco apprezzata dai committenti tanto da trovare posto solo in una delle stanze della servitù fa un certo effetto oggi. E se nel Ritratto di Diego Martelli (1879, Scottish National Gallery, Edimburgo) Edgar Degas dà un taglio decisamente fotografico con la visuale presa dall’alto, ne La colazione (1885 circa, Columbus Museum of Art, Ohio), delizioso pastello dove la figura domina, in una gestualità spontanea, la luce si intride nell’intensità del colore pastoso.
Ed eccoci a Gli antenati di Tehamana (Merahi metua No Tehamana) (1893 The Art Institute of Chicago) dove Gauguin ritrae la sua giovane compagna di Tahiti, con addosso severi abiti da missionaria, bellezza misteriosa velata da un alone di malinconia. Dietro di lei ideogrammi dell’isola di Pasqua, a dare un senso di frattura nei confronti delle «incrostazioni» della cultura occidentale, e nuovi colori, la purezza e l’ancestralità.
L’excursus sul ritratto termina con due figure sedute, entrambe le mani incrociate: le donne di Ritratto di Augustine Roulin la Berceuse (1889, Stedelijk Museum, Amsterdam) di Van Gogh e Ritratto di Vaïte (Jeanne) Goupil (1896, Ordrupgaard, Copenaghen) di Gauguin hanno alle loro spalle degli sfondi che «sono delle apparizioni – sottolinea Goldin - che nascono nella mente, che siano i campi di margherite di Van Gogh o quel rosa come una grande spiaggia di Gauguin». Il ritratto impressionista non esiste più, siamo passati dalla semplice descrizione di un volto a ciò che quel volto rappresenta.
Il quadro simbolo «La piccola Irene» di Renoir è una della prove più alte Uno sguardo sognante e colmo di aspettativa, una posa naturale e non celebrativa