Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
La partita con l’Europa fra il miliardo mancante e la guerra sugli esuberi
Padoan: o i pugni sul tavolo o l’intervento-bis di Atlante
Andare a Bruxelles, battere i pugni e ottenere una retromarcia. O, in alternativa, tornare dalle grandi banche italiane e convincerle che bisogna mettere altri soldi in Atlante e attrezzare un secondo intervento nelle ex popolari venete al fianco dello Stato. Sullo sfondo, una domanda preliminare a cui rispondere, a ben vedere decisiva soprattutto in Veneto: quelle due banche interessano ancora a qualcuno? Si restringono a un’alternativa secca le vie che stanno di fronte al governo sulla ricapitalizzazione di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, per evitare il tracollo finale. Il nodo resta come far fronte al miliardo di capitale privato in più - ma la cifra sarebbe piuttosto più vicina agli 800 milioni - che improvvisamente la Dg Competition dell’Unione europea ha messo questa settimana sul tavolo della trattativa per la ricapitalizzazione di Bpvi e Veneto Banca. Richiesta tassativa, da quel che si capisce, conditio sine qua non per dare il via libera all’intero schema della ricapitalizzazione precauzionale con i fondi dello Stato. «Prima mi dimostrate che ci sono privati che mettono 800 milioni», hanno in sostanza detto dall’Europa, per dare il via libera all’intervento. Capitali necessari, per Bruxelles, a coprire - cosa che non si può fare con i fondi statali - le nuove perdite destinate a presentarsi già quest’anno, con le valutazioni più restrittive sul portafoglio dei crediti che Bce ha chiesto alle due banche (per lettera il 13 marzo a Popolare di Vicenza, ma analoga richiesta è giunta anche a Veneto Banca). Le banche avevano già avvertito un mese fa, nei bilanci 2016, del rischio incombente di «ulteriori impatti negativi - come aveva scritto Bpvi -, allo stato non quantificabili ma potenzialmente significativi sulla situazione patrimoniale ed economica già entro il 2017». E il rischio è già alle porte, come pietra d’inciampo che rischia di far saltare definitivamente le banche. Perché è chiaro che nessun privato o imprenditore potrà pensare di metter soldi in una situazione così complicata. «Messa così la richiesta non è risolvibile: l’Ue non può che rivedere la richiesta», dice per esempio Silvio Fortuna, l’imprenditore vicentino presidente dell’associazione vicina a Bpvi «Futuro 150».
Evidente che le vie praticabili sono due. O il ministero dell’Economia cambia linea e si fa sentire pesantemente in Europa, com’è intenzionato a fare la settimana entrante secondo quanto filtra da Roma, e fa ritirare la richiesta del capitale privato, o ingoia il rospo e si attrezza per andare dalle altre banche, che hanno già detto no in tutte le salse, per far mettere altri soldi ad Atlante nelle due venete al fianco dello Stato, o in subordine far intervenire il Fondo interbancario di tutela dei depositanti.
Partita tutta esterna al Veneto, fin qui. Eppure la domanda iniziale - al Veneto interessa o no la sopravvivenza delle due ex popolari - rientra dalla finestra. Perché è chiaro che o intorno all’estenuante trattativa disseminata di tagliole c’è una pressione, soprattutto politica, anche dal Veneto, sul governo italiano, o è chiaro che la tentazione, nel silenzio, di mollare rischia di profilarsi, di fronte alla voglia dell’Europa di dare una lezione all’Italia, provando in Veneto il test della risoluzione bancaria. Anche perché il governo deve comunque portare a casa l’ulteriore partita, ancor più strategica, di Montepaschi.
E la pressione va mantenuta, anche perché la trattativa sarebbe tutt’altro che risolta, anche si riuscisse ad aggirare la pietra d’inciampo del capitale privato. Quella con Bruxelles è tutt’altro che una discussione di principio; al contrario, si tratta di una trattativa minuziosa, in cui l’Ue spulcia e sindaca i piani delle banche dettaglio dopo dettaglio. In cui ad esempio, da quel che si capisce, la pretesa è di portare a casa, ancor prima di addentrarsi sul piano industriale che punta alla fusione tra le due ex popolari, un taglio dei costi. Così la richiesta dei 12 giorni di solidarietà già messa sul tavolo per quest’anno dovrebbe salire a 24 negli anni tra il 2018 e il 2021. Con una manovra che permetterebbe di ridurre gli stipendi intorno al 7%. Taglio che Bruxelles punterebbe a far salire al 10%.
Il tutto prima di addentrarsi negli ulteriori tagli di personale da affrontare con il piano industriale di fusione, che a questo punto è dato per chiuso e timbrato a fine giugno. Le cessioni in programma delle società controllate dovrebbero ridurre di 1.460 i dipendenti nel perimetro. Entro cui si conterebbero a quel punto - con numeri all’ingrosso - 1.700 esuberi, tra 1.160 uscite riequilibrate da 500 assunzioni. Medicina durissima, per mandar avanti la fusione tra le due venete. Che lascia aperta la domanda se gli ammortizzatori siano in grado di coprire tutto. D’altra parte l’Ue è disposta a far marciare la trattativa, secondo quanto si può ricostruire, con un’alternativa prendere o lasciare, per accendere il disco verde su una fusione intorno a cui non mancano le tirate di naso: se non vi va così, la soluzione è risolvere una delle due banche. Con Veneto Banca candidata vittima. E qui torna la domanda iniziale: al Veneto interessano ancora le due ex popolari?
Vista da fuori Fortuna: «Messa giù così, la richiesta Ue di un intervento di capitali privati è irrisolvibile. L’Unione non può che rivederla». Ma i grandi istituti hanno già chiarito di non voler mettere altri fondi nel salvataggio