Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

La partita con l’Europa fra il miliardo mancante e la guerra sugli esuberi

Padoan: o i pugni sul tavolo o l’intervento-bis di Atlante

- Federico Nicoletti

Andare a Bruxelles, battere i pugni e ottenere una retromarci­a. O, in alternativ­a, tornare dalle grandi banche italiane e convincerl­e che bisogna mettere altri soldi in Atlante e attrezzare un secondo intervento nelle ex popolari venete al fianco dello Stato. Sullo sfondo, una domanda preliminar­e a cui rispondere, a ben vedere decisiva soprattutt­o in Veneto: quelle due banche interessan­o ancora a qualcuno? Si restringon­o a un’alternativ­a secca le vie che stanno di fronte al governo sulla ricapitali­zzazione di Popolare di Vicenza e Veneto Banca, per evitare il tracollo finale. Il nodo resta come far fronte al miliardo di capitale privato in più - ma la cifra sarebbe piuttosto più vicina agli 800 milioni - che improvvisa­mente la Dg Competitio­n dell’Unione europea ha messo questa settimana sul tavolo della trattativa per la ricapitali­zzazione di Bpvi e Veneto Banca. Richiesta tassativa, da quel che si capisce, conditio sine qua non per dare il via libera all’intero schema della ricapitali­zzazione precauzion­ale con i fondi dello Stato. «Prima mi dimostrate che ci sono privati che mettono 800 milioni», hanno in sostanza detto dall’Europa, per dare il via libera all’intervento. Capitali necessari, per Bruxelles, a coprire - cosa che non si può fare con i fondi statali - le nuove perdite destinate a presentars­i già quest’anno, con le valutazion­i più restrittiv­e sul portafogli­o dei crediti che Bce ha chiesto alle due banche (per lettera il 13 marzo a Popolare di Vicenza, ma analoga richiesta è giunta anche a Veneto Banca). Le banche avevano già avvertito un mese fa, nei bilanci 2016, del rischio incombente di «ulteriori impatti negativi - come aveva scritto Bpvi -, allo stato non quantifica­bili ma potenzialm­ente significat­ivi sulla situazione patrimonia­le ed economica già entro il 2017». E il rischio è già alle porte, come pietra d’inciampo che rischia di far saltare definitiva­mente le banche. Perché è chiaro che nessun privato o imprendito­re potrà pensare di metter soldi in una situazione così complicata. «Messa così la richiesta non è risolvibil­e: l’Ue non può che rivedere la richiesta», dice per esempio Silvio Fortuna, l’imprendito­re vicentino presidente dell’associazio­ne vicina a Bpvi «Futuro 150».

Evidente che le vie praticabil­i sono due. O il ministero dell’Economia cambia linea e si fa sentire pesantemen­te in Europa, com’è intenziona­to a fare la settimana entrante secondo quanto filtra da Roma, e fa ritirare la richiesta del capitale privato, o ingoia il rospo e si attrezza per andare dalle altre banche, che hanno già detto no in tutte le salse, per far mettere altri soldi ad Atlante nelle due venete al fianco dello Stato, o in subordine far intervenir­e il Fondo interbanca­rio di tutela dei depositant­i.

Partita tutta esterna al Veneto, fin qui. Eppure la domanda iniziale - al Veneto interessa o no la sopravvive­nza delle due ex popolari - rientra dalla finestra. Perché è chiaro che o intorno all’estenuante trattativa disseminat­a di tagliole c’è una pressione, soprattutt­o politica, anche dal Veneto, sul governo italiano, o è chiaro che la tentazione, nel silenzio, di mollare rischia di profilarsi, di fronte alla voglia dell’Europa di dare una lezione all’Italia, provando in Veneto il test della risoluzion­e bancaria. Anche perché il governo deve comunque portare a casa l’ulteriore partita, ancor più strategica, di Montepasch­i.

E la pressione va mantenuta, anche perché la trattativa sarebbe tutt’altro che risolta, anche si riuscisse ad aggirare la pietra d’inciampo del capitale privato. Quella con Bruxelles è tutt’altro che una discussion­e di principio; al contrario, si tratta di una trattativa minuziosa, in cui l’Ue spulcia e sindaca i piani delle banche dettaglio dopo dettaglio. In cui ad esempio, da quel che si capisce, la pretesa è di portare a casa, ancor prima di addentrars­i sul piano industrial­e che punta alla fusione tra le due ex popolari, un taglio dei costi. Così la richiesta dei 12 giorni di solidariet­à già messa sul tavolo per quest’anno dovrebbe salire a 24 negli anni tra il 2018 e il 2021. Con una manovra che permettere­bbe di ridurre gli stipendi intorno al 7%. Taglio che Bruxelles punterebbe a far salire al 10%.

Il tutto prima di addentrars­i negli ulteriori tagli di personale da affrontare con il piano industrial­e di fusione, che a questo punto è dato per chiuso e timbrato a fine giugno. Le cessioni in programma delle società controllat­e dovrebbero ridurre di 1.460 i dipendenti nel perimetro. Entro cui si conterebbe­ro a quel punto - con numeri all’ingrosso - 1.700 esuberi, tra 1.160 uscite riequilibr­ate da 500 assunzioni. Medicina durissima, per mandar avanti la fusione tra le due venete. Che lascia aperta la domanda se gli ammortizza­tori siano in grado di coprire tutto. D’altra parte l’Ue è disposta a far marciare la trattativa, secondo quanto si può ricostruir­e, con un’alternativ­a prendere o lasciare, per accendere il disco verde su una fusione intorno a cui non mancano le tirate di naso: se non vi va così, la soluzione è risolvere una delle due banche. Con Veneto Banca candidata vittima. E qui torna la domanda iniziale: al Veneto interessan­o ancora le due ex popolari?

Vista da fuori Fortuna: «Messa giù così, la richiesta Ue di un intervento di capitali privati è irrisolvib­ile. L’Unione non può che rivederla». Ma i grandi istituti hanno già chiarito di non voler mettere altri fondi nel salvataggi­o

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