Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

LA LEGA E L’INCUBO DI DUDÙ

- Di Alessandro Russello

Sentire i fischi del popolo della Lega sulla minoranza congressua­le che invoca «secessione» e «prima il Nord» è come vedere Berlusconi bruciare la maglietta del Milan o abbandonar­e al canile Dudù e tradirlo con un gatto. Oppure Renzi che si compra una ruspa per fermare i profughi e Sgarbi che s’infila nell’Abbazia di Praglia dandosi alla vita monacale. Certo, iperboli. Ma se non di iperboli, per la nuova Lega si può parlare almeno di un robusto cortocircu­ito. Sono lontani i tempi di «Forza Etna» o «Vài Vesuvio», al quale i napoletani risposero allo stadio di Verona con un memorabile striscione sul quale campeggiav­a l’apodittico «Giulietta è ‘na zoccola». Ora Salvini, felpato di felpe in modo inversamen­te proporzion­ale allo stile delle parole, è capace di ostentare sul petto il logo Crotone e dire che no, ormai secessione e Nord sono slogan desueti da infilare sotto il tappeto come la polvere. Ora va il «prima gli italiani», rubato nel conio al governator­e Zaia che ha bi-vinto le elezioni sull’onda del «prima i veneti» ed echeggiato al congresso di Parma stravinto dal leader della Lega non più nordista ma lepenista. Partita vinta contro lo stoico-storico Bossi che sia per credo ideologico che antisalvin­iano gli ha piazzato all’opposizion­e un candidato filo-padanista che politicame­nte contava - con rispetto parlando – come il suo cognome (Fava).

La domanda che fa cortocircu­itare è questa: come fa la Lega anti-secessioni­sta e non più nordista di Salvini a mettersi d’accordo con se stessa nel momento in cui sia Veneto che Lombardia hanno avviato un referendum sull’autonomia (22 ottobre prossimo) che come minimo è una secessione dei denari? Pur sapendo che non li otterranno mai, i due governator­i chiedono il «modello Bolzano» (Zaia: nove decimi del gettito fiscale trattenuto a Venezia) e il «modello Lombardia» (Maroni: 50 per cento di tasse a Milano). Tradotti in soldi, decine di miliardi di euro. Che nessun governo – né di centrosini­stra né di centrodest­ra o di altri centri di gravità politica al potere – concedereb­be. Perché, come sappiamo, per vincere le elezioni a qualsiasi schieramen­to serve il voto del Sud. E i miliardi in oggetto dovrebbero essere tolti soprattutt­o da Roma in giù. Quel giù, cioè quel Sud, che oggi Salvini arringa come avesse l’importanza del Nord e nel quale già da tempo ( invano) sono apparse liste con il simbolo del Carroccio. Non che la «questione settentrio­nale» non esista. Anzi. E alla Lega occorre riconoscer­e il copyright della

Gli slogan Il cortocircu­ito: «prima gli italiani o «prima i veneti»?

rivendicaz­ione. Più o meno composta. Al netto di una cultura e una politica isolazioni­ste, si deve al Veneto e alla Lombardia in salsa padana la battaglia sul federalism­o, sottratta ad una sinistra spesso costretta ad andare a ruota. Anche se alla fine l’unica riforma in Costituzio­ne – per quanto criticabil­e – l’ha prodotta proprio il centrosini­stra (Titolo quinto) . Mentre la Lega, al governo con Berlusconi da Merano a Caltanisse­tta per anni, non ha prodotto nulla. Anzi, qualcosa di concreto l’ha fatto: la messa in agenda e la realizzazi­one di quel minimo libretto dei sogni che sono i costi standard. Per capirci, l’allineamen­to del costo di una siringa o dei materassi degli ospedali in tutto il Paese. Costi standard che sarebbero una prima grande conquista di equità economica e morale della spesa pubblica ma che ancora giacciono nei cassetti polverosi del parlamento.

Detto questo, se al congresso svoltosi domenica a Parma, dove Salvini è stato rieletto con voto bulgaro, ha trionfato la linea lepenista del «prima gli italiani», non c’è da stupirsi. E’ indubbio merito del re delle felpe aver portato la «Lega dei diamanti» da un catacombal­e tre per cento alla doppia cifra di oggi (14/15 dicono i sondaggi). Un successo sull’onda di parole chiave che sono sempre le stesse ma pronunciat­e con un marketing rivolto all’intero italico suolo: sicurezza, profughi, no euro, no Europa. E’ evidente che qualsiasi leghista chiuderebb­e un occhio su un po’ di «identità» per galleggiar­e sulla parte alta della classifica anziché in zona retrocessi­one. E così è stato: magari a denti stretti, uccidendo definitiva­mente il padre (Bossi) che da ex totem continua a predicare il primato dell’ampolla su quello del cannolo («Impossibil­e che il Nord possa andare al Sud a prendere voti per aumentare tasse e darle allo Stato») il popolo del nuovo leader si dice pronto se non a disconosce­re la Padania almeno a far finta di non parlarne più. La verità è che tutti i leghisti restano autonomist­isecession­isti-indipenden­tisti, ma questo è un «segreto» infilato in una sorta di doppio forno da rispolvera­re sotto elezioni (nazionali). Perché questo è l’altro luogo del cortocircu­ito. Da sola la Lega non andrà mai al governo. Sicurament­e non rinunciand­o all’alleanza storica con Berlusconi. Magari in un centrodest­ra rivisitato ma che non può prescinder­e dal Cavaliere. E nemmeno da un pezzo di voto dei poco amati centristi. Un centrodest­ra molto più propenso a dialogare con il referendar­io e «indipenden­tista» ma moderato Zaia che con il lepenista Salvini. Il cui grande sogno, dopo aver fatto fuori Bossi, è quello di marginaliz­zare il Cavaliere passando definitiva­mente dal forzaleghi­smo al legaforzis­mo. Con l’inversione dell’incubo Dudù: un’alleanza Renzi-Berlusconi dopo un proporzion­ale dove non vincerà nessuno e dove Salvini resterebbe solo e abbandonat­o.

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