Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
LA LEGA E L’INCUBO DI DUDÙ
Sentire i fischi del popolo della Lega sulla minoranza congressuale che invoca «secessione» e «prima il Nord» è come vedere Berlusconi bruciare la maglietta del Milan o abbandonare al canile Dudù e tradirlo con un gatto. Oppure Renzi che si compra una ruspa per fermare i profughi e Sgarbi che s’infila nell’Abbazia di Praglia dandosi alla vita monacale. Certo, iperboli. Ma se non di iperboli, per la nuova Lega si può parlare almeno di un robusto cortocircuito. Sono lontani i tempi di «Forza Etna» o «Vài Vesuvio», al quale i napoletani risposero allo stadio di Verona con un memorabile striscione sul quale campeggiava l’apodittico «Giulietta è ‘na zoccola». Ora Salvini, felpato di felpe in modo inversamente proporzionale allo stile delle parole, è capace di ostentare sul petto il logo Crotone e dire che no, ormai secessione e Nord sono slogan desueti da infilare sotto il tappeto come la polvere. Ora va il «prima gli italiani», rubato nel conio al governatore Zaia che ha bi-vinto le elezioni sull’onda del «prima i veneti» ed echeggiato al congresso di Parma stravinto dal leader della Lega non più nordista ma lepenista. Partita vinta contro lo stoico-storico Bossi che sia per credo ideologico che antisalviniano gli ha piazzato all’opposizione un candidato filo-padanista che politicamente contava - con rispetto parlando – come il suo cognome (Fava).
La domanda che fa cortocircuitare è questa: come fa la Lega anti-secessionista e non più nordista di Salvini a mettersi d’accordo con se stessa nel momento in cui sia Veneto che Lombardia hanno avviato un referendum sull’autonomia (22 ottobre prossimo) che come minimo è una secessione dei denari? Pur sapendo che non li otterranno mai, i due governatori chiedono il «modello Bolzano» (Zaia: nove decimi del gettito fiscale trattenuto a Venezia) e il «modello Lombardia» (Maroni: 50 per cento di tasse a Milano). Tradotti in soldi, decine di miliardi di euro. Che nessun governo – né di centrosinistra né di centrodestra o di altri centri di gravità politica al potere – concederebbe. Perché, come sappiamo, per vincere le elezioni a qualsiasi schieramento serve il voto del Sud. E i miliardi in oggetto dovrebbero essere tolti soprattutto da Roma in giù. Quel giù, cioè quel Sud, che oggi Salvini arringa come avesse l’importanza del Nord e nel quale già da tempo ( invano) sono apparse liste con il simbolo del Carroccio. Non che la «questione settentrionale» non esista. Anzi. E alla Lega occorre riconoscere il copyright della
Gli slogan Il cortocircuito: «prima gli italiani o «prima i veneti»?
rivendicazione. Più o meno composta. Al netto di una cultura e una politica isolazioniste, si deve al Veneto e alla Lombardia in salsa padana la battaglia sul federalismo, sottratta ad una sinistra spesso costretta ad andare a ruota. Anche se alla fine l’unica riforma in Costituzione – per quanto criticabile – l’ha prodotta proprio il centrosinistra (Titolo quinto) . Mentre la Lega, al governo con Berlusconi da Merano a Caltanissetta per anni, non ha prodotto nulla. Anzi, qualcosa di concreto l’ha fatto: la messa in agenda e la realizzazione di quel minimo libretto dei sogni che sono i costi standard. Per capirci, l’allineamento del costo di una siringa o dei materassi degli ospedali in tutto il Paese. Costi standard che sarebbero una prima grande conquista di equità economica e morale della spesa pubblica ma che ancora giacciono nei cassetti polverosi del parlamento.
Detto questo, se al congresso svoltosi domenica a Parma, dove Salvini è stato rieletto con voto bulgaro, ha trionfato la linea lepenista del «prima gli italiani», non c’è da stupirsi. E’ indubbio merito del re delle felpe aver portato la «Lega dei diamanti» da un catacombale tre per cento alla doppia cifra di oggi (14/15 dicono i sondaggi). Un successo sull’onda di parole chiave che sono sempre le stesse ma pronunciate con un marketing rivolto all’intero italico suolo: sicurezza, profughi, no euro, no Europa. E’ evidente che qualsiasi leghista chiuderebbe un occhio su un po’ di «identità» per galleggiare sulla parte alta della classifica anziché in zona retrocessione. E così è stato: magari a denti stretti, uccidendo definitivamente il padre (Bossi) che da ex totem continua a predicare il primato dell’ampolla su quello del cannolo («Impossibile che il Nord possa andare al Sud a prendere voti per aumentare tasse e darle allo Stato») il popolo del nuovo leader si dice pronto se non a disconoscere la Padania almeno a far finta di non parlarne più. La verità è che tutti i leghisti restano autonomistisecessionisti-indipendentisti, ma questo è un «segreto» infilato in una sorta di doppio forno da rispolverare sotto elezioni (nazionali). Perché questo è l’altro luogo del cortocircuito. Da sola la Lega non andrà mai al governo. Sicuramente non rinunciando all’alleanza storica con Berlusconi. Magari in un centrodestra rivisitato ma che non può prescindere dal Cavaliere. E nemmeno da un pezzo di voto dei poco amati centristi. Un centrodestra molto più propenso a dialogare con il referendario e «indipendentista» ma moderato Zaia che con il lepenista Salvini. Il cui grande sogno, dopo aver fatto fuori Bossi, è quello di marginalizzare il Cavaliere passando definitivamente dal forzaleghismo al legaforzismo. Con l’inversione dell’incubo Dudù: un’alleanza Renzi-Berlusconi dopo un proporzionale dove non vincerà nessuno e dove Salvini resterebbe solo e abbandonato.