Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

«Gaul eroe sul Bondone e Magni il più coriaceo L’amico? È Moser»

L’intervista 3/

- M.S.

«Il Giro passava da Montagnana, Padova. Ero su una curva col mio professore. Fortuna benedetta: lo vidi, Bartali, perché era in testa al gruppetto… e fu come un’apparizion­e (spalanca occhi, bocca e sorride ndr). Anni e anni dopo ci mangiai un risotto assieme alla sagra del mio paese, Cologna Veneta. Mi disse: oggi hanno le ammiraglie, signor Rana, ma nel ciclismo anteguerra l’ammiraglia me la dovevo fare da solo». Viviamo di amori e la bici, per Giovanni Rana, è un legame a prova di tutto. «Da piccolo, sulla mia Bianchi, rovinai a terra per un’indigestio­ne: trauma cranico, ospedale, a casa scattò il divieto. Compiuti i 40 mi sono regalato una Chesini. E nel 2004 il Mondiale a Verona: grande fautore fu quel genio del mio amico Teofilo Sanson, io presiedevo il comitato organizzat­ore, di cui faceva parte anche mio figlio Gian Luca, ancor’oggi grande appassiona­to di ciclismo». Col re del tortellino il patto è quello lì: dargli l’imbeccata, poi a scegliere le cartoline ci pensa lui. La sua prima tappa, Rana? «Scuola d’avviamento profession­ale, studiavo per fare l’agricoltor­e, sarà stato il ‘50 o ‘51. Passaggio da Montagnana, dieci km da Cologna Veneta. Tornai al paese ripetendom­i: hai visto Bartali, hai visto Bartali. Forse per capire quell’emozione vi serve il contesto: il Giro lo raccontava­no radio e Gazzetta, niente immagini alla tv, il tifoso doveva lavorare di fantasia». Come ci si andava al Giro? «A Montagnana ci andai in bicicletta. Poi un anno passarono da Montebello Vicentino: era appena finita la guerra e non c’erano tanti controlli, così montammo in venti sul camion di bibite di mio fratello…». Coppi o Bartali? «A me piaceva Coppi: longilineo, cassa toracica larga ma corsa, elegante. Bartali era più tozzo, uno da montagna. Epiche, le loro battaglie. Poi per Coppi venne lo scandalo della Dama Bianca: oggi non credo verrebbe giù il mondo come allora…».

Nel suo pantheon del Giro chi altro c’è?

«Tifavo per Lorenzo Magni, corridore coriaceo, tanto coriaceo che sul pavé delle Fiandre la sua forza dominava; la fortuna di gareggiare ai tempi di Coppi e Bartali fu anche la sua sfortuna. Ricordo poi un nobile del ciclismo, lo svizzero Hugo Koblet, primo straniero a vincere il Giro, e il suo connaziona­le Ferdi Kübler, dal naso inconfondi­bile. Quindi i francesi: Louis Bobet (nel ruolo di se stesso nel film “Totò al Giro d’Italia”, ndr) e il famoso “testa di vetro”, Jean Robic, caso eccezional­e di ciclista col casco, all’epoca per necessità perché s’era fratturato il cranio nella Parigi-Roubaix del ‘44». La tappa indimentic­abili? «Quella della fuga solitaria di Charly Gaul sul Bondone. I giornali scrissero: “Più che una tappa, un’apocalisse”. Nevicava, -20°, cascarono tutti ma non lui. Avevo 19 anni: l’immagine del lussemburg­hese che resisteva nel gelo non m’ha più lasciato».

Amicizie con gli eroi del Giro?

«Una, bella, con Francesco Moser, che oggi fa le bollicine e mi ha invitato a inaugurarg­li la cantina. Simpaticis­simi anche Gimondi e Adorni. Il fatto è che i ciclisti, a me che amo le tappe di montagna, sono sempre piaciuti…». Perché? «Perché è gente che sa soffrire».

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L’impresa di Gaul «Neve sul Bondone, era un’apocalisse» dice Giovanni Rana

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