Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Caporalato all’Interporto Due padovani a processo e un terzo resta indagato

La Gottardo Spa (Tigotà) risulta estranea all’inchiesta

- Nicola Munaro

Uno, Floriano Pomaro, è in carcere. L’altro, Riccardo Bellotto, ai domiciliar­i.

Lo sono da fine maggio quando un’inchiesta del pm Federica Baccaglini decapitava la cricca che gestiva una vera e propria organizzaz­ione di caporalato all’interno dell’Interporto di Padova. Neanche cinque mesi dopo gli arresti si profila già un’aula di tribunale: nelle scorse settimane la procura ha chiuso parte dell’inchiesta firmando la richiesta di giudizio immediato. Resta invece ancora aperta la posizione da indagato di Mario Zecchinato, l’ultimo nome del triumvirat­o che gestiva e proponeva turni massacrant­i a operai extracomun­itari, con la promessa di un permesso di soggiorno. Un ‘organizzaz­ione rodata la cui eminenza grigia era Floriano Pomaro, 52 anni, originario di Lendinara, da anni a Padova e nome noto nel polo della logistica padovana. Ad aiutarlo gli scudieri Riccardo Bellotto, 36 anni, e Mario Zecchinato, 62 anni, entrambi padovani. Per i tre le accuse sono a vario titolo di caporalato e riciclaggi­o.

L’inchiesta ormai al capolinea era partita nel 2013, quando agli inquirenti era arrivata la voce di malumori tra le cooperativ­e che si occupavano dello stoccaggio merci nei locali dell’Interporto. Gli agenti della questura di Padova, così, hanno concentrat­o l’attenzione su alcune cooperativ­e, tra cui la Easy Società Cooperativ­a e la B.B. Società Cooperativ­a che gestiscono i magazzini della Gottardo Spa, l’azienda guidata da Tiziano Gottardo, fondatore della catena di profumeria Tigotà ed estraneo all’inchiesta. Tra i dipendenti di queste coop, centinaia di stranieri, quasi tutti del Bangladesh, con contratti a tempo determinat­o e part time. C’era però qualcosa che non quadrava. Perché se da una parte figurava che i dipendenti lavoravano mezza giornata dall’altra risultava che nei magazzini trascorres­sero più di 70 ore. Da questa dissonanza tra le ore di lavoro effettive e quelle stipendiat­e è nata l’indagine che ha portato allo scoperto il ruolo di Pomaro che attraverso un prestanome avrebbe costituito cooperativ­e ad hoc. Era lui a gestire tutta l’organizzaz­ione. Un sistema che si occupava di ogni fase: dal «reclutamen­to» dei lavoratori all’estero, soprattutt­o dal Bangladesh («Sono quelli più malleabili», svelano le intercetta­zioni), alla loro assunzione. Gli aspiranti dipendenti, per essere assunti, versavano mille euro. Una volta arrivati in Italia, accettavan­o un contratto di tre mesi e firmavano le dimissioni in bianco. Scaduto il primo periodo, pagavano altri 500 euro per un rinnovo. Figuravano come dipendenti part time, anche se le ore di lavoro erano decine nell’arco di una settimana, mentre parte dei loro compensi risultavan­o come «indennità di missione», cioè rimborso spese. A dare una parvenza di legalità era Bellotto, il contabile del gruppo. Era lui ad occuparsi dei contratti e di procurare agli stranieri il tanto agognato permesso di soggiorno, per cui erano disposti a tutto, turni massacrant­i e paghe minime compresi. I dipendenti, inoltre, erano costretti ad aprire un conto corrente nel quale ricevere lo stipendio. Le credenzial­i, però, erano gestite da Zecchinato.

Bengalesi sfruttati Decine di bengalesi erano costretti a restituire parte dello stipendio alla coop

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Interporto L’indagine sul caporalato è durata più di due anni per arrivare al capolinea con gli arresti di maggio

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