Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Hemingway
Una coppia di americani, una guida, una gita interrotta. L’ultimo mistero ampezzano nel racconto cortinese del grande scrittore. Ferrari: «Per lui fu una palestra di stile»
Cortina d’Ampezzo «palestra» di Ernest Hemingway? Secondo Gian Arturo Ferrari è andata proprio così. Per raccontare l’ultimo mistero cortinese ci voleva l’uomo che da anni regge le sorti di un pezzo importante della cultura letteraria italiana: è stato direttore della divisione libri Mondadori, ora ne è vicepresidente, ed è presidente di Rizzoli. Ma Ferrari è, soprattutto, e per sua stessa ammissione, un «polimaniaco». Gli interessano tante cose, e tra queste i libri di Hemingway, tutti. Ma ce n’è uno di cui ci parla in particolare, in una conversazione che comincia qualche settimana fa su una terrazza affacciata sulle Tofane: è il capolavoro I quarantanove racconti, pubblicato per la prima volta nel 1938. «Un’astuzia di marketing, innanzitutto», sorride Ferrari, «pensa se Hemingway l’avesse intitolato ad esempio I cinquanta racconti: non sarebbe stato infinitamente più ovvio e prevedibile?». Non sapremo mai qual è il racconto che Hemingway scartò per evitare la cifra tonda; in compenso sappiamo che uno di quei racconti, scritto nel 1923, venne composto e ambientato proprio a Cortina. Che Hemingway abbia amato la Regina delle Dolomiti e ci abbia passato momenti importanti della sua vita è cosa nota; meno lo è che quel racconto, intitolato con sublime coincidenza «Out of Season» (Fuori stagione in italiano), abbia rappresentato per lo scrittore una sorta di palestra di stile, nella direzione di opere più mature e complete.
Gian Arturo Ferrari, perché «Out of Season» è così importante per la prosa di Hemingway?
«Prima di spiegarlo bisogna dire brevemente di che cosa parla. È una storia insieme semplice e piuttosto enigmatica. Quasi un’incompiuta. Ci sono tre personaggi: una coppia giovane americana e un cortinese, un certo Peduzzi. Una specie di guida del posto, da loro assoldata. Peduzzi si presenta in albergo, i due lo fanno aspettare mentre pranzano, e solo più tardi escono tutti insieme e si incamminano. Il cortinese, che è un ubriacone locale, li dovrebbe portare a pesca, elemento ricorrente di Hemingway. Capiamo però che qualcosa è successo durante il pranzo tra gli americani, qualcosa che si sono detti e che li rende imbarazzati e a disagio. I due uomini camminano lungo la strada principale del paese, la ragazza li segue con le canne. Dopo poco lei decide di abbandonare l’opera e torna in albergo. Gli altri due proseguono, ma infine lo stesso americano rinuncia al progetto di andare a pescare, cosa che lascia assai scontento Peduzzi, il quale aveva in animo di continuare a chiedere mance con le quali acquistare altro alcol. Ci vediamo domani?, chiede Peduzzi. Forse sì, gli risponde l’americano, ma capiamo che probabilmente l’impresa è definitivamente abortita». Come mai? «Non si sa. A differenza di altre storie successive di Hemingway, qui la struttura peculiare è basata sul non detto. La tecnica di Hemingway evolverà, in questo senso. In “Sea Change”, in italiano Metamorfosi marina, ad esempio, racconto successivo e sempre con una coppia che litiga quale protagonista, ma ambientato a Parigi, la ragione dello screzio si intravvede: ed è che probabilmente lei ha tradito il compagno, e lo ha fatto con una donna».
È di Hemingway il cosiddetto principio dell’iceberg, o dell’omissione, nella scrittura: puoi omettere qualsiasi cosa, se sai di averla omessa, e se la parte omessa rinforza la storia.
«È la chiave. Bisogna raccontare una cosa che è successa senza parlarne direttamente. Se ne devono vedere, nel racconto, solo gli effetti. E a ben vedere, a pensarci, nella nostra vita vera accade esattamente così: raramente si parla del merito delle questioni, ma si vive nelle conseguenze che esse producono. La tecnica culminerà con quello che è probabilmente il più importante dei quarantanove racconti, che è “La breve vita felice di Francis Macomber”, che Hemingway scrisse tredici anni dopo. Un capolavoro, la più compiuta e matura delle sue storie brevi. Ma c’è un’altra cosa per la quale il racconto cortinese di Hemingway è apripista. Ed è il punto di vista dei personaggi». Ovvero? «In “Su nel Michigan”, primo in ordine di stesura dei quarantanove, il punto di vista è neutro, è una luce verticale che illumina la scena. In “Macomber”, lo chiamiamo per brevità così, lo sviluppo drammatico verrà dato dall’alternarsi dei punti di vista dei personaggi, Macomber stesso, la moglie Margot che lo uccide e il cacciatore bianco Wilson che ci fa capire, senza dirlo esplicitamente, che cosa è successo. Out of Season, il racconto cortinese, sta in mezzo: ci sono i punti di vista dei tre personaggi, ma Hemingway non riesce ancora a costruire a partire da lì lo sviluppo drammatico. Che infatti rimane inespresso. Cortina è un bozzolo, non è ancora una farfalla».
Resta sospeso un enigma. Che cosa è successo, nella storia, tra i due americani a Cortina?
«Non lo sapremo mai. Che cosa si siano detti i due durante quel pranzo – qualcosa di sgradevole che ha mandato a monte tutto il progetto della pesca, qualcosa di personale, di importante - non è intuibile. Ma il fatto che l’embrione della cosa più bella che secondo me Hemingway abbia scritto stia in quel racconto ampezzano del 1923 è una cosa di cui Cortina dovrebbe andare molto orgogliosa».
Il Veneto di Hemingway non è solo Cortina. Tra due mesi saranno passati cent’anni dalla rotta di Caporetto. Il racconto che ne fa lo scrittore in Addio alle armi è uno dei classici della letteratura.
«La cosa divertente è che Hemingway arrivò in Italia per combattere nella Grande Guerra solo nel febbraio 1918: dunque non fu testimone oculare di Caporetto. L’ispirazione la trasse altrove. Verso la fine del ’22 venne mandato dal suo giornale in Tracia, a seguire un episodio della greco-turca. Vide la fuga dei greci da Adrianopoli, ora Edirne, sotto la pioggia di ottobre, qualcosa di epico e di terribile. Fu quella visione ad ispirargli la descrizione della rotta di Caporetto. La grande ritirata delle popolazioni civili del Friuli e del Veneto orientale descritta in Addio alle armi insomma narrativamente viene da lì. Non dal Carso, ma dalla Grecia».