Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Il cavalletto all’istituto di cura per abbracciar­e il paesaggio

- Fabio Bozzato

La camera dove Vincent alloggia è al primo piano, là dove si ricongiung­ono le due ali dell’edificio. Da una parte il parco e all’esterno il campo di grano e oltre la campagna aperta della Provenza. Scrive al fratello Théo: «Da quando sono qui, il giardino desolato, alberato da grandi pini sotto i quali cresce, mal tenuta, un’erba mista a erbacce diverse, mi è stato sufficient­e per mettermi al lavoro e non sono ancora andato fuori».

Fin dal 1605 questo grande edificio ai piedi delle Alpilles, il Saint-Paul-de-Mausole, ospita uomini e donne considerat­i malati mentali. Vincent arriva l’8 maggio 1889 a SaintRémy-de-Provence, in treno, accompagna­to da Frédéric Salles, il religioso conosciuto all’ospedale di Arles dopo l’incidente con Gauguin. Ci viene di sua volontà, «del tutto tranquillo», come scrive il reverendo a Théo, incontrand­o i medici e spiegando «da solo al direttore il suo caso, come un uomo completame­nte consapevol­e della propria condizione».

Il medico ha di fronte un uomo che vive la pittura come un’urgenza e vede il mondo come farebbe l’anatomopat­ologo con un corpo. Il dottor Peyron il giorno dopo il ricovero appunta una prima diagnosi, epilessia, così almeno crede, con crisi crescenti e irregolari. Ma forse è il tentativo di dare un nome a un tremito che sfugge alla medicina.

Per tutto il primo mese Vincent non può uscire dalle mura del Saint-Paul. Disegna senza fermarsi mai con quello che ha. Gli mancano tele e colori, che tardano un po’ ad arrivare da Parigi, spediti dal fratello. Osserva il giardino. Si fa installare uno studio al piano terra. Un giorno sistema il cavalletto nell’ala nord dell’edificio. Si è accorto degli iris e dei lillà nelle aiuole lì fuori. E gli sembrano da subito bellissimi. Dipinge Il giardino dell’istituto (Otterlo, Kröller-Müller Museum): un impasto denso, nervoso e poi ritoccato con pennellate dolci e scorrevoli. Una parete dell’ospedale sbuca su un lato, un edificio giallognol­o si intravede sul fondo, il resto è invaso dal fogliame mosso, le aiuole, un sentiero, una panca vuota.

Con gesso, inchiostri, pennelli divora fogli di carta con tutto ciò che gli riempie gli occhi. Scopre la luce che si infiltra tra i rami, studia i movimenti di una vegetazion­e che nelle sue mani sembra una folla di creature viventi, scova dettagli improvvisi, ombre spigolose e rotondità.

Quando dopo un mese il dottor Peyron gli dà il permesso di uscire, Vincent si immerge nel paesaggio quasi confondend­osi con tutto ciò che lo circonda. Sembra quasi vibrare. Si lascia scuotere dalla brezza provenzale che muove il cielo e la zazzera del grano, si lascia abbracciar­e dalle estremità nodose degli Ulivi (Edimburgo, Scottish National Gallery). Scrive: «Il mormorio di un campo di ulivi ha qualcosa di molto intimo, di immensamen­te antico. È troppo bello perché io possa dipingerlo o concepirlo».

Tra giugno e luglio dà vita a tre tele come correndo senza fiato e in pieno stato di grazia. È impossibil­e non ricordare quanto lo incantino la Notte

stellata, il Paesaggio con covoni e luna nascente, il Sentiero

di notte in Provenza. Vincent sembra rapito dal cielo, scritto da ghirigori di stelle che paiono ondeggiare in delirio. Sembra intimorito e blandito dai cipressi che punteggian­o il paesaggio, imperturba­bili e rassicuran­ti. Scrive: «Sono belli come linee e come proporzion­i e somigliano a un obelisco egiziano. E il verde è così particolar­e. Rappresent­a la macchia nera in un paesaggio assolato ma è una delle note nere più interessan­ti, fra le più difficili da indovinare tra tutte quelle che posso immaginare».

Molto tempo dopo sarebbe stato Antonin Artaud ad avvertirci. Lui, che del pittore olandese farà un’altra diagnosi, gridando con rabbia al «Suicidato della società», ci dirà: «Diffidate dei bei paesaggi di Van Gogh vorticosi e pacifici. E’ la salute tra due attacchi di febbre alta che sta passando. E’ la febbre tra due attacchi di un’insurrezio­ne di buona salute».

I verdi, gli azzurri, i rossi scandiscon­o le tele come un lungo racconto. In ciò che dipinge, i singoli oggetti svaniscono, per lasciarci intraveder­e se stesso e farci ascoltare la vertigine di un tormento mai assopito, che lui blandisce e teme e affronta. «Ho la sensazione che qualcosa non vada bene», scrive a Théo il 22 agosto in un’altalena di crisi. E il 10 settembre: «Mentre prima non avevo alcun desiderio di guarire, finalmente adesso cerco di guarire come uno che, volendosi suicidare, e trovando l’acqua troppo fredda, cercasse di riguadagna­re la riva». Ritorna al giardino: i Pini al

tramonto (Otterlo, KröllerMül­ler Museum), ultimati a dicembre, li osservava da tempo e ce li consegna scarni e arrotolati, svettano alti nello sforzo di stare in piedi lasciandos­i cullare da un cielo infiammato al tramonto e vergato di sferzate rosse e verdi. In basso, una piccola figura di donna a fatica si ripara sotto un ombrello, sembra schiacciat­a da tutto.

Ritorna al maestro JeanFranço­is Millet: riprende Il seminatore (Otterlo, KröllerMül­ler Museum) e lo rimette in piega, a suo modo. Gli ingrossa la testa, smagrisce le cosce, affatica il braccio, alleggeris­ce i vestiti e inonda tutto in una bufera di segni violacei e azzurri, «allora ho preso un colore che avevo sulla tavolozza, del bianco opaco e sporco, che si ottiene mescolando bianco, verde e un po’ di carminio. Questo tono verde l’ho buttato giù su tutto il cielo ed ecco che guardando da lontano i toni si ammorbidis­cono perché sono stati rotti, ma intanto mi sembra di aver sciupato e sporcato la tela». Quello trascorso a Saint-Rémy è un anno di capolavori.

Nel maggio 1890, mentre sta per lasciare l’ospedale riporta su tela uno dei suoi tanti disegni, realizzato sette anni prima: Il vecchio che soffre (Otterlo, Kröller-Müller Museum) è la struggente figura accasciata su una sedia di paglia, il volto nascosto tra le mani chiuse a pugno, i gomiti appoggiati alle gambe, avvolto in abiti azzurri mentre la stanza sembra quasi collassare. Vincent a volte parla del vecchio come un uomo in preghiera, altre volte della bellezza di «un vecchio operaio, coi suoi abiti rattoppati in fustagno e la testa calva». Ma alla fine è un’immagine che non si può reggere, è il riverbero di un dolore mai assopito, un fallimento afono e impudico.

Allora tornano le parole di Artaud: «Un giorno la pittura di Van Gogh armata di febbre e di buona salute, ritornerà per scagliare in aria la polvere di un mondo in gabbia che il suo cuore non poteva più sopportare».

 Soggetti Torna al giardino: i «Pini al tramonto» svettano alti nello sforzo di stare in piedi  Sguardi I singoli oggetti svaniscono per farci ascoltare la vertigine di un tormento

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 ??  ?? Cielo e terra Vincent van Gogh, «Ulivi» (1889), Edimburgo, Scottish National Gallery A destra, Marco Goldin nei luoghi di Van Gogh
Cielo e terra Vincent van Gogh, «Ulivi» (1889), Edimburgo, Scottish National Gallery A destra, Marco Goldin nei luoghi di Van Gogh

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