Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

La scheda

- Isabella Panfido

Settanta giorni per settanta opere, l’ultimo tratto di pennello della breve, faticosiss­ima avventura esistenzia­le di Vincent van Gogh va da maggio a luglio del 1890, pochi giorni di una vita di 37 anni, fatta di stagioni mutevoli, giornate infuocate e lunghi tunnel bui in un viaggio la cui geografia è definita da poche tappe, concentrat­e in un decennio. E di questo itinerario d’arte e vita cominciato in un nord fiammingo cupo, afflitto da miseria e lavoro duro e attraversa­to dal sole accecante del sud francese la meta ultima, il capolinea è ancora un nord, più morbido, più accoglient­e, un nord che sana l’accecament­o provenzale, che definisce e suggella la linea estrema, il «non più oltre» dello sguardo, della immaginazi­one, l’asticella dell’anima - come piace a Vincent ( e a Goldin) chiamare la mente e lo spirito – alzata al massimo livello tollerabil­e. È là, da quel confine di dolore che Van Gogh riesce finalmente a chiudere con la vita e con l’arte che di quella fu senso, ragione e norma. Da Saint Rémy, dal rifugio dell’ospedale psichiatri­co, dai larghi campi di sole e covoni, dalla formidabil­e combustion­e di allucinazi­oni e realtà, Vincent si allontana con la segreta consapevol­ezza che il suo tempo è consumato ormai: si avvia verso Auvers-surOise, un paesino a 30 chilometri a nord est di Parigi.

È la metà di maggio del 1890 quando il pittore fa tappa nella casa parigina del fratello Theo e della moglie di lui Jo. Resta tre giorni in famiglia, dove c’è il nipotino che porta il suo nome; è accolto con affetto ma altra è la sua meta. Riprende il treno per quel luogo di frescura sulle sponde della Oise, portando con sé quattro delle tante tele dipinte in Provenza, tra esse l’autoritrat­to azzurro (l’inestingui­bile ossessione dell’autoritrat­to) che donerà nei brevi giorni di Auvers al dottor Gachet, quel medico a cui Théo lo aveva affidato e che gli starà vicino premurosam­ente, quello stesso uomo straziato di malinconia che guarda dalla tela, famosissim­a, dipinta da Vincent durante quel suo estremo soggiorno.

È a Auvers che la sua pittura, come il suo corpo, trova conciliazi­one con la fine: «nella fine è il mio inizio» scrive Eliot, e Van Gogh riassume nel suo estremo lavoro quanto aveva concepito e elaborato al principio, nei non lontanissi­mi giorni del Brabante. Questa è la tesi affascinan­te che il percorso espositivo concepito da Marco Goldin ci mette sotto gli occhi con la breve, intensa, ultima tappa della mostra vicentina. Cinque quadri, dipinti tra il 22 maggio e 29 luglio 1809, che hanno il compito di riassumere il cammino compiuto dall’arte di Van Gogh, iniziata con i tenebrosi mangiatori di patate, intinta nel naturalism­o, attraversa­ta dal pointillis­mo, dal giapponism­o, dai modi di Corot, di Monet, di Gaugain e poi, per autocombus­tione, incendiata di colore come nessuno prima e dopo di lui. Questa insostenib­ilità della vita, quel suo troppo vedere – e per rendersene conto basta rileggere alcuni passi delle lettere di Vincent che Goldin accuratame­nte cita in mostra (e ripubblica con nuove traduzioni ) - ogni dettaglio, ogni sfumatura, ogni minima linea dei profili nelle cose, nella natura diventano ciascuno soverchian­te protagonis­ta nello sguardo. Troppo da contenere nella mente – nell’anima troppo da dipingere. Allora la conciliazi­one nella pittura diventa ricordo che affiora, come nel Ritratto di giovane donna (Otterlo, Kröller- Müller Museum, The Netherland­s) dove è l’immagine della memoria che si deposita sulla tela: un ritratto di profilo, attenuato nei tratti come nel colore, dal fondo lavorato a piccole virgole di colore. Van Gogh scrive profeticam­ente alla sorella, circa un mese prima di suicidarsi, di voler fare «ritratti che fossero delle vere e proprie rivelazion­i per le persone che verranno fra un secolo». Ritratti resi con il «colore come strumento di espression­e e di rappresent­azione del carattere». E accanto, uno dei primi quadri che Vincent dipinge al suo arrivo a Auvers: Castagni in fiore (ancora da Otterlo, Kröller- Müller Museum), un piccolo studio giocato di blu e azzurri, dal bordo inferiore non finito, dalle pennellate aguzze per il fogliame e morbidamen­te liquide per il cielo.

Il cielo, quanto cielo nella ultima parete della mostra, come si spalancass­e l’empireo sopra l’avventura umana di un genio. Ci dice Goldin: «È la conclusion­e che ho rincorso da tempo», che raduna e riassume tutto l’andare, il vivere e il morire di Vincent, la disperata gioia del vedere. Così Campo di papaveri (da L’Aia, Gemeentemu­seum Den Haag, prestito a lungo termine dal Netherland­s Institute for Cultural Heritage ) dove il cielo, strinato di bianco e di nero, è premonizio­ne sopra l’erba medica marezzata di papaveri.

Dimentichi­amo la serena infinitezz­a azzurra sopra il Ponte di Langlois e il lapislazzu­li di cielo sopra il sentiero del parco, appena ieri, appena a Saint Remy; qui accade il destino, in quel cielo turbatissi­mo e superbo di Covone sotto un cielo nuvoloso (da Otterlo, Kröller- Müller Museum), verosimilm­ente l’ultima tela dipinta dall’artista. Quasi una montagna sacra, il covone massiccio e giallo assiste a un volo di corvi che lascia una terra franta in minimi tratti di pennello, gesti spezzati da sinistra a destra dall’alto in basso, nell’azzardo di un cielo gonfio e mutante che minaccia pioggia. Ed eccola quella pioggia che sono lacrime vere, nello straziato e straziante capolavoro del «transito», della uscita di scena: Paesaggio con la pioggia, Auvers, luglio 1890 (Cardiff, Amgueddfa Genedlaeth­ol Cymru National Museum of Wales, lascito di Gwendoline Davies 1952). Il quadro è 50x100 cm: il paesaggio si assottigli­a in tre fasce sovrappost­e dove l’immagine realistica lascia spazio a un presentime­nto di scomposizi­one cubista, attraversa­ta da uno scroscio di linee diagonali che rigano la tela (sembrerebb­ero ottenute con il manico del pennello, quasi dei graffi) come un incontenib­ile, dirotto, pianto celeste: il commiato.

Il «Campo di papaveri» è un’opera densa di premonizio­ni Uno stile sorprenden­te che anticipa le avanguardi­e del Novecento

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 ??  ?? Dall’alto: Vincent van Gogh, «Paesaggio con la pioggia, Auvers» (1890),Cardiff, National Museum of Wales, «Campo di papaveri»(1890), L’Aia,Collection Gemeentemu­seum The Hague, e «Covone sotto un cielo nuvoloso» (1889), Otterlo, Kröller-Müller Museum
Dall’alto: Vincent van Gogh, «Paesaggio con la pioggia, Auvers» (1890),Cardiff, National Museum of Wales, «Campo di papaveri»(1890), L’Aia,Collection Gemeentemu­seum The Hague, e «Covone sotto un cielo nuvoloso» (1889), Otterlo, Kröller-Müller Museum

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