Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
La scheda
Settanta giorni per settanta opere, l’ultimo tratto di pennello della breve, faticosissima avventura esistenziale di Vincent van Gogh va da maggio a luglio del 1890, pochi giorni di una vita di 37 anni, fatta di stagioni mutevoli, giornate infuocate e lunghi tunnel bui in un viaggio la cui geografia è definita da poche tappe, concentrate in un decennio. E di questo itinerario d’arte e vita cominciato in un nord fiammingo cupo, afflitto da miseria e lavoro duro e attraversato dal sole accecante del sud francese la meta ultima, il capolinea è ancora un nord, più morbido, più accogliente, un nord che sana l’accecamento provenzale, che definisce e suggella la linea estrema, il «non più oltre» dello sguardo, della immaginazione, l’asticella dell’anima - come piace a Vincent ( e a Goldin) chiamare la mente e lo spirito – alzata al massimo livello tollerabile. È là, da quel confine di dolore che Van Gogh riesce finalmente a chiudere con la vita e con l’arte che di quella fu senso, ragione e norma. Da Saint Rémy, dal rifugio dell’ospedale psichiatrico, dai larghi campi di sole e covoni, dalla formidabile combustione di allucinazioni e realtà, Vincent si allontana con la segreta consapevolezza che il suo tempo è consumato ormai: si avvia verso Auvers-surOise, un paesino a 30 chilometri a nord est di Parigi.
È la metà di maggio del 1890 quando il pittore fa tappa nella casa parigina del fratello Theo e della moglie di lui Jo. Resta tre giorni in famiglia, dove c’è il nipotino che porta il suo nome; è accolto con affetto ma altra è la sua meta. Riprende il treno per quel luogo di frescura sulle sponde della Oise, portando con sé quattro delle tante tele dipinte in Provenza, tra esse l’autoritratto azzurro (l’inestinguibile ossessione dell’autoritratto) che donerà nei brevi giorni di Auvers al dottor Gachet, quel medico a cui Théo lo aveva affidato e che gli starà vicino premurosamente, quello stesso uomo straziato di malinconia che guarda dalla tela, famosissima, dipinta da Vincent durante quel suo estremo soggiorno.
È a Auvers che la sua pittura, come il suo corpo, trova conciliazione con la fine: «nella fine è il mio inizio» scrive Eliot, e Van Gogh riassume nel suo estremo lavoro quanto aveva concepito e elaborato al principio, nei non lontanissimi giorni del Brabante. Questa è la tesi affascinante che il percorso espositivo concepito da Marco Goldin ci mette sotto gli occhi con la breve, intensa, ultima tappa della mostra vicentina. Cinque quadri, dipinti tra il 22 maggio e 29 luglio 1809, che hanno il compito di riassumere il cammino compiuto dall’arte di Van Gogh, iniziata con i tenebrosi mangiatori di patate, intinta nel naturalismo, attraversata dal pointillismo, dal giapponismo, dai modi di Corot, di Monet, di Gaugain e poi, per autocombustione, incendiata di colore come nessuno prima e dopo di lui. Questa insostenibilità della vita, quel suo troppo vedere – e per rendersene conto basta rileggere alcuni passi delle lettere di Vincent che Goldin accuratamente cita in mostra (e ripubblica con nuove traduzioni ) - ogni dettaglio, ogni sfumatura, ogni minima linea dei profili nelle cose, nella natura diventano ciascuno soverchiante protagonista nello sguardo. Troppo da contenere nella mente – nell’anima troppo da dipingere. Allora la conciliazione nella pittura diventa ricordo che affiora, come nel Ritratto di giovane donna (Otterlo, Kröller- Müller Museum, The Netherlands) dove è l’immagine della memoria che si deposita sulla tela: un ritratto di profilo, attenuato nei tratti come nel colore, dal fondo lavorato a piccole virgole di colore. Van Gogh scrive profeticamente alla sorella, circa un mese prima di suicidarsi, di voler fare «ritratti che fossero delle vere e proprie rivelazioni per le persone che verranno fra un secolo». Ritratti resi con il «colore come strumento di espressione e di rappresentazione del carattere». E accanto, uno dei primi quadri che Vincent dipinge al suo arrivo a Auvers: Castagni in fiore (ancora da Otterlo, Kröller- Müller Museum), un piccolo studio giocato di blu e azzurri, dal bordo inferiore non finito, dalle pennellate aguzze per il fogliame e morbidamente liquide per il cielo.
Il cielo, quanto cielo nella ultima parete della mostra, come si spalancasse l’empireo sopra l’avventura umana di un genio. Ci dice Goldin: «È la conclusione che ho rincorso da tempo», che raduna e riassume tutto l’andare, il vivere e il morire di Vincent, la disperata gioia del vedere. Così Campo di papaveri (da L’Aia, Gemeentemuseum Den Haag, prestito a lungo termine dal Netherlands Institute for Cultural Heritage ) dove il cielo, strinato di bianco e di nero, è premonizione sopra l’erba medica marezzata di papaveri.
Dimentichiamo la serena infinitezza azzurra sopra il Ponte di Langlois e il lapislazzuli di cielo sopra il sentiero del parco, appena ieri, appena a Saint Remy; qui accade il destino, in quel cielo turbatissimo e superbo di Covone sotto un cielo nuvoloso (da Otterlo, Kröller- Müller Museum), verosimilmente l’ultima tela dipinta dall’artista. Quasi una montagna sacra, il covone massiccio e giallo assiste a un volo di corvi che lascia una terra franta in minimi tratti di pennello, gesti spezzati da sinistra a destra dall’alto in basso, nell’azzardo di un cielo gonfio e mutante che minaccia pioggia. Ed eccola quella pioggia che sono lacrime vere, nello straziato e straziante capolavoro del «transito», della uscita di scena: Paesaggio con la pioggia, Auvers, luglio 1890 (Cardiff, Amgueddfa Genedlaethol Cymru National Museum of Wales, lascito di Gwendoline Davies 1952). Il quadro è 50x100 cm: il paesaggio si assottiglia in tre fasce sovrapposte dove l’immagine realistica lascia spazio a un presentimento di scomposizione cubista, attraversata da uno scroscio di linee diagonali che rigano la tela (sembrerebbero ottenute con il manico del pennello, quasi dei graffi) come un incontenibile, dirotto, pianto celeste: il commiato.
Il «Campo di papaveri» è un’opera densa di premonizioni Uno stile sorprendente che anticipa le avanguardie del Novecento