Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Tormenti e genio in 100 lettere
preparatori, né come schizzi e appunti, ma come opere complete. «Il disegno è ciò che torna all’origine delle cose, fa insieme al reale il percorso dalla nascita alla morte delle cose, soprattutto dei volti», scrive Goldin. Dalla «sgrammaticatura» degli esordi alla «grazia divinatoria» della maturità artistica, come un’unica «intima confessione».
Un secondo baricentro: le lettere. In «Van Gogh prima di Van Gogh» l’autore ripercorre il filo di oltre 150 lettere, tra il 1872 e il 1880, «spesso lunghe molte pagine – racconta – scritte dopo un’estenuante giornata di lavoro e di esplorazioni, sul filo di crisi continue, quasi sempre di notte». Le lettere come prolungazione di segni e pennellate, quasi un’opera totale, dove le parole sono necessarie quanto il colore, e senza le quali le tele sarebbero afone e il fallimento di Vincent risulterebbe naif invece che insopportabile.
Il grande pittore scrive al fratello: «Uno ha un grande fuoco nell’anima e mai nessuno viene a scaldarsi e i passanti non vedono che quel che ne appare per un po’ di fumo in cima al camino, e proseguono per la loro strada». Lo si può immaginare là, in quella «stanza che si fa mondo», come la descrive in dettaglio Goldin, perché – dice - «bisognerebbe andarci, in quella stanza. In un giorno della vita. Con nessuno attorno. E solo a respirare silenzio».
Un terzo baricentro: «la luce come destino»: «La sensorialità di Van Gogh, e la sua attenzione nel percepire la luce non come un fatto concettuale e mentale, ma piuttosto come un fatto fisico che sprofonda nel misticismo e nella spiritualità». E’ il trionfo dei gialli, che abbagliano e intimidiscono, spingono dentro ad altri luoghi e diventano «un’onda sonora».
Dai saggi, il catalogo si apre alle «Tavole», seguendo semplicemente le tappe degli spostamenti del pittore, da una città all’altra fino al suo tragico destino. La quantità di disegni, il nugolo di tele, diventano un «Piccolo Atlante» biografico di Vincent, immagine dopo immagine, col ritmo di smarrimenti continui e di slanci improvvisi.
«Di fronte alla natura mi prendono emozioni che giungono fino allo svenimento e allora per quindici giorni non sono più capace di lavorare». Così ammette Van Gogh al critico Aurier nel febbraio del 1890 in una delle circa 900 lettere che il pittore scrisse, per lo più al fratello Théo, dal 1872 alla morte alla fine del 1890. Dall’epistolario Goldin ha curato con Silvia Zancanella una scelta di 100 lettere, in una nuova traduzione accuratamente annotata, per corredare la mostra di Vicenza con testi originali. Ma, indipendentemente dalla esposizione, l’ottima iniziativa editoriale Vincent van Gogh 100 lettere (Linea d’ombra, pagine 325, euro 18) ha il merito di restituire una dimensione del genio pittorico di Vincent a tutto tondo: la figura dell’artista si arricchisce nella confidenza epistolare di note che riguardano la sua sfera intellettuale. Uomo colto di ampie e profonde letture, l’artista di Zundert scrive con fluidità ed eleganza di temi letterari, annotando costantemente quanto la lettura andava arricchendo il suo mondo interiore. Leggendo quelle pagine intense vien da pensare che la sua genialità cromatica non fosse legata alla labilità psichica che gli mostrava una realtà esaltata/alterata, ma alla straordinaria sensibilità visiva corredata da una rarissima facoltà di resa verbale e analisi visuale. Eccone alcuni esempi: «Il Mediterraneo ha il colore degli sgombri, cioè cangiante, non si è sempre sicuri che sia verde oppure viola, non si è sempre sicuri che sia azzurro, perché, un attimo dopo, il riflesso cangiante assume una tinta rosa o grigia» (a Théo giugno 1888) oppure: «Ora, io ho cercato qualche effetto d’opposizione del fogliame cambiando le tonalità del cielo. Talvolta l’insieme è di un azzurro puro e velato nell’ora in cui l’albero fiorisce pallido, quando le grosse mosche blu, i maggiolini smeraldo, e infine le cicale volano numerose tutt’attorno. Poi quando il verde più bronzino assume tonalità più mature il cielo risplende e si riga di verde e d’arancio oppure molto più avanti ancora in autunno quando le foglie assumono le tonalità vagamente violacee di un fico maturo, l’effetto viola si manifesterà in pieno grazie alle opposizioni del pieno sole biancheggiante in un alone di color limone chiaro e impallidito» (a Isaäcson, maggio 1890). L’esito è tutt’altro che istintivo, è invece l’ultima tappa di un lungo, sofisticato, esclusivo processo di elaborazione intellettuale. Altro che genio e sregolatezza!