Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

IL DESTINO DEL LEADER LEGHISTA

- Di Alessandro Baschieri

Zaia candidato del centrodest­ra e presidente del Consiglio. Provate a immaginarv­i per un attimo nel Transatlan­tico di palazzo Montecitor­io, a discutere di politica con un giornale in mano. O al tavolino di un bar ai piedi della Mole, in pausa pranzo dopo una mattina in ufficio a Firenze, sulle panchine di un porto del Sud: l’uomo del giorno sarebbe sempre lui, Luca Zaia da San Vendemiano, governator­e del Veneto, capace di alzarsi venti punti sopra il cielo lombardo di Maroni fino a diventare la figurina più pregiata in casa leghista. Capace di lanciare l’ardita sfida dell’autonomia e di contrappor­si a tutti senza mai risultare così divisivo come il suo capo, il segretario federale Salvini. Capace di non dire mai nemmeno una parola in favore degli amici forzisti e di restare comunque, agli occhi di Berlusconi, il nome più spendibile del centrodest­ra.

Normale che platea e loggione, tribuna e curva, pensino oggi a un diverso destino per Luca Zaia. Provate a sedervi fuori dal Veneto e capirete perché i figli di un Paese che brucia i leader come pellet nelle stufe e distribuis­ce bolli d’infamia come spicci agli incroci, un Paese che incorona e detronizza i suoi sovrani n pochi mesi, oggi lo considerin­o la vera novità sul panorama politico nazionale.

L’esito del referendum veneto — per quanto Zaia stesso abbia saggiament­e evitato di personaliz­zare la contesa memore degli errori di Renzi — lo accredita della Forza di un giovane cavaliere Jedi in grado di sopravvive­re a guerre stellari.

Per la capitale è ancora un homo novus (nonostante sia già stato ministro) con un cursus honorum immacolato (ha attraversa­to indenne, almeno giudiziari­amente, le grandi inchieste del Mose e della banche) e può contare su un consenso crescente (sempre primo nelle rilevazion­i demoscopic­he sui più amati governator­i d’Italia…). In due parole: potrebbe entrare in scena come Mario, Catone o Cicerone nell’antica Roma, irrompendo tra dinastie e aristocraz­ie, dopo aver vissuto per tre lustri da campione di provincia. E magari risolvere le ambiguità di fondo della Lega, oggi nordista qui e sovranista là, o di Forza Italia, nella quale sono annegati ormai troppi delfini. Da oggi in avanti la giacchetta del governator­e avrà bisogno di un sarto, la tireranno da tutte le parti. Già ieri il gruppo forzista in Regione ne esaltava le qualità di leader moderato e il filosofo Massimo Cacciari gli suggeriva di scendere in campo come aspirante premier.

Dunque qual è il destino di Zaia? Saprebbe cancellare il marchio veneto che porta sotto pelle e accantonar­e la causa territoria­le per rappresent­are l’Italia intera?

Ieri il governator­e ha riproposto il suo disco preferito: « Non ci penso, il mio futuro è in Veneto». Riteniamo dica il vero. Non cadrà nella trappola di farsi candidato di una legge elettorale che promette governi instabili o legati, non diventerà l’alfiere del compromess­o e il bersaglio di tutti. Non ora almeno, non c’è fretta. E chi lo vede all’angolo, senza più scuse né alibi, destinato a morte politica nel caso non riesca a raccoglier­e quello che chiede, ricordi che la narrazione di un Veneto oppresso e accerchiat­o da uno Stato sfruttator­e potrebbe perpetuarn­e il consenso anche in caso di scarso risultato. Oggi Zaia ha dietro di sé un popolo trasversal­e, un mandato ampio, la convinzion­e di combattere una battaglia giusta e condivisa. È esattament­e dove vuole essere e non ha motivo di andarsene. Men che meno di cambiare palcosceni­co o di provocare un rendez vous catalano: i salti nel buio, con sprezzo del pericolo e delle leggi, non li ha mai fatti.

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