Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
IL DESTINO DEL LEADER LEGHISTA
Zaia candidato del centrodestra e presidente del Consiglio. Provate a immaginarvi per un attimo nel Transatlantico di palazzo Montecitorio, a discutere di politica con un giornale in mano. O al tavolino di un bar ai piedi della Mole, in pausa pranzo dopo una mattina in ufficio a Firenze, sulle panchine di un porto del Sud: l’uomo del giorno sarebbe sempre lui, Luca Zaia da San Vendemiano, governatore del Veneto, capace di alzarsi venti punti sopra il cielo lombardo di Maroni fino a diventare la figurina più pregiata in casa leghista. Capace di lanciare l’ardita sfida dell’autonomia e di contrapporsi a tutti senza mai risultare così divisivo come il suo capo, il segretario federale Salvini. Capace di non dire mai nemmeno una parola in favore degli amici forzisti e di restare comunque, agli occhi di Berlusconi, il nome più spendibile del centrodestra.
Normale che platea e loggione, tribuna e curva, pensino oggi a un diverso destino per Luca Zaia. Provate a sedervi fuori dal Veneto e capirete perché i figli di un Paese che brucia i leader come pellet nelle stufe e distribuisce bolli d’infamia come spicci agli incroci, un Paese che incorona e detronizza i suoi sovrani n pochi mesi, oggi lo considerino la vera novità sul panorama politico nazionale.
L’esito del referendum veneto — per quanto Zaia stesso abbia saggiamente evitato di personalizzare la contesa memore degli errori di Renzi — lo accredita della Forza di un giovane cavaliere Jedi in grado di sopravvivere a guerre stellari.
Per la capitale è ancora un homo novus (nonostante sia già stato ministro) con un cursus honorum immacolato (ha attraversato indenne, almeno giudiziariamente, le grandi inchieste del Mose e della banche) e può contare su un consenso crescente (sempre primo nelle rilevazioni demoscopiche sui più amati governatori d’Italia…). In due parole: potrebbe entrare in scena come Mario, Catone o Cicerone nell’antica Roma, irrompendo tra dinastie e aristocrazie, dopo aver vissuto per tre lustri da campione di provincia. E magari risolvere le ambiguità di fondo della Lega, oggi nordista qui e sovranista là, o di Forza Italia, nella quale sono annegati ormai troppi delfini. Da oggi in avanti la giacchetta del governatore avrà bisogno di un sarto, la tireranno da tutte le parti. Già ieri il gruppo forzista in Regione ne esaltava le qualità di leader moderato e il filosofo Massimo Cacciari gli suggeriva di scendere in campo come aspirante premier.
Dunque qual è il destino di Zaia? Saprebbe cancellare il marchio veneto che porta sotto pelle e accantonare la causa territoriale per rappresentare l’Italia intera?
Ieri il governatore ha riproposto il suo disco preferito: « Non ci penso, il mio futuro è in Veneto». Riteniamo dica il vero. Non cadrà nella trappola di farsi candidato di una legge elettorale che promette governi instabili o legati, non diventerà l’alfiere del compromesso e il bersaglio di tutti. Non ora almeno, non c’è fretta. E chi lo vede all’angolo, senza più scuse né alibi, destinato a morte politica nel caso non riesca a raccogliere quello che chiede, ricordi che la narrazione di un Veneto oppresso e accerchiato da uno Stato sfruttatore potrebbe perpetuarne il consenso anche in caso di scarso risultato. Oggi Zaia ha dietro di sé un popolo trasversale, un mandato ampio, la convinzione di combattere una battaglia giusta e condivisa. È esattamente dove vuole essere e non ha motivo di andarsene. Men che meno di cambiare palcoscenico o di provocare un rendez vous catalano: i salti nel buio, con sprezzo del pericolo e delle leggi, non li ha mai fatti.