Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
TOSCANI E IL VENTO DELL’EST
Il fotografo Oliviero Toscani trova sgradevole il dialetto veneto, lo sente musicalmente impastato dall’alcool, instabile sui fonemi e perennemente sul punto di perdere l’equilibrio del discorso. A un lombardo come lui fa l’effetto del gallico o del germanico alle orecchie di un civis romanus, un ba-ba-ba sgangherato, barbaro per l’appunto, il cui suono rivela l’essenza primitiva di una popolazione non ancora completamente civilizzata. Un popolo di «mona» insomma. Con questa gente bisogna avere pazienza, prima o poi, attraverso l’insegnamento e un più stretto contatto con le forze dell’impero, verranno assimilate. Il fatto è che in Veneto non succede, non c’è riuscito Nicolò Tommaseo e non ce l’ha fatta Mike Bongiorno, due grandi divulgatori in forma diversa.Toscani non conta una mazza si dirà, ma è sbagliato pensarlo. Anche lui è un grande divulgatore, uno che più di altri e con i soldi dei Benetton è riuscito a trasformare in moneta sonante il cliché della sinistra caviar per la quale dall’incrocio di due culture si ottiene sempre un cultura superiore: il meticcio è meglio dei genitori, la risultante meglio delle componenti, mescola due colori, fallo con due culture e per risultato avrai un bellissimo criollo. Lo ha fatto con una campagna pubblicitaria, la «Unite Colors of Benetton», di grande impatto visivo che trasformava in soldi la convinzione sinistrorsa secondo cui dalla fusione dei diversi viene fuori sempre un esemplare migliore.
Èuna fede radicata questa – i progressisti di sinistra la chiamano assimilazione sperando di prevalere – ma non diversa dall’altra e opposta, di destra, secondo cui la purezza dei tratti va mantenuta ad ogni costo perché solo nella conservazione delle rispettive identità discende un proficuo dell’incontro da due culture. Altrimenti è guerra. Nei fatti la sindrome identitaria se ne frega della destra e della sinistra, Madrid ad esempio teme che a Barcellona si installi un Lula catalano e Barcellona paventa il franchismo di ritorno. Cosa voglio dire? Che la suscettibilità dell’educatore Toscani (lombardo al 38,3 per cento) nei confronti di noi veneti (veneti al 57,2 per cento) è utile e ci serve per correggere il tiro sul discorso identitario: non siamo trumpiani come si è detto, l’America è lontana e la nostra non è la «rust belt» - la cintura rugginosa degli Usa in crisi - siamo europei invece e fino in fondo, europei dell’est esattamente.
Quel che accade in Veneto – e il referendum autonomista lo rivela – ha molto più a che fare con quanto accade nella fascia europea ex comunista, la vecchia Mitteleuropa, che con la fusciacca a stelle e strisce di Trump. Il dialetto veneto è un pretesto, il nostro problema è il loro, identitario, percettivo e di prossimità.
Come noi i paesi dell’est detestano il sud europeo piagnone e mantenuto, diffidano di Bruxelles e temono il contagio islamico, come noi ospitano meno immigrati della Campania e della Germania eppure si sentono più minacciati. E’ l’Ungheria, la Cechia e l’Austria, tutti paesi che hanno riscoperto i valori cristiani in chiave anti islamica e che stanno producendo maggioranze di destra.
Noi siamo paesani, abbiamo nostalgia delle porte di casa lasciate aperte, dei conti lasciati al «casolin». Le donne velate ci fanno ancora impressione e se anche i mori non li abbiamo avuti in casa, nel 1529 eravamo a Vienna a combatterli con Eugenio di Savoia. La Bulgaria, parte della Moldavia e della Boemia che hanno assaggiato il tacco ottomano se li ricordano bene. Da noi l’idea che l’assimilazione islamica possa funzionare non è mai passata. Siamo austro-ungarici non trumpiani e il sommovimento che viene da quella parte dell’Europa ci appartiene.
Quelli come Toscani sono un’altra cosa, amano il vasto mondo come noi amiamo l’acquario di Genova, ma con il vetro di mezzo.
Per la sociologa inglese Ruth Glass sono «gentry» (così si chiamava la piccola nobiltà inglese) e per loro ha coniato il termine «gentrificazione» per descrivere il fenomeno con cui i vecchi ceti operai e artigiani vengono progressivamente scacciati dal centro delle città da una classe colta, ricca e cosmopolita che il mondo lo vede da una vetrata. Il Veneto non ha vetrate o le ha meno spesse - le citta capoluogo (un po’ gentry) hanno votato di meno, ma il resto della regione è paese – e la trama economica di cui è fatto è diffusa, ha un ordito culturale stretto intrecciato da riconoscimenti e segni culturali di cui il dialetto è solo la grafia. La stoffa che ne risulta è speciale, molto nazionale, molto straniera e barbara ai Toscani.
«Vostra eccellenza che mi sta in cagnesco e mi gabella per antitedesco», no non lo siamo proprio.
A San Pietro Mussolino (vallata di Chiampo, paese autonomista al 74%), dopo lo spoglio di domenica, l’impiegata dell’anagrafe alzava gli occhi al cielo: «Siamo diventati una fabbrica di cittadinanze italiane». E il sindaco, Gabriele Tasso: «Lavoriamo per loro, contributi, assistenza, sussidi alle famiglie. All’anagrafe ci sono 240 aspiranti italiani che l’italiano non lo parlano, che non hanno votato e non voteranno mai. Ottenuta la cittadinanza, scappano in Inghilterra e in Germania. Erano 300 tre anni fa, 60 sono già partiti».
Zanè ha pochi immigrati, è ricca e fa industria, qui Alessandra Moretti (Pd) al dibattito pre-elettorale organizzato dal sindaco Roberto Berti è stata costretta a differenziarsi con un rammaricato e vago, «ah, potevate farla già dieci anni fa l’autonomia». Idem sentire, nei bar non riconosci più l’avventore di sinistra da quello di destra, e parlano tutti la stessa lingua, dalla Pedemontana alla Bassa Padovana, dal Veneziano ai Lessini, tutti, che par di sentire l’ugrofinnico.