Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Languore e furore, il mito di Lord Byron conteso nei salotti letterari e nelle alcove
I tre anni a Venezia, l’ultimo innamoramento e la fuga a Ravenna
Le sue liriche sono un must dei circoli letterari e lui un’icona del languore e del furore romantico. Lord George Gordon Byron arriva a Venezia nel 1816 e si ferma tre anni. Per questo la mostra alle Gallerie lo omaggia, tanto è intimo il legame fra il poeta inglese e la città lagunare.
Sono passati quasi vent’anni dalla fine della Serenissima. E’ l’epoca convulsa della Restaurazione dopo l’epopea napoleonica. L’Europa cambia volto, veloce, i singulti risorgimentali sembrano micce pronte ad esplodere. E’ per l’indipendenza della Grecia che lo stesso lord-poeta muore (anche se di febbre e non in battaglia), di lì a qualche anno, nel 1824, diventando un giovane eroe.
«Venezia mi piace tanto quanto mi aspettavo, e mi aspettavo molto», scrive Byron al suo editore John Murray. Cosa lo rapisce? «La malinconica gaiezza delle gondole e il silenzio dei canali». Venezia gli piace perché «di notte specialmente è pieno di vita. I teatri non sono aperti fino alle nove, e la gente vi arriva ancora più tardi». E ancora: «Ho preso in affitto ottime stanze in una casa privata». E’ la sua prima dimora, in Frezzeria, a due passi da San Marco. «Incontro a volte quelli che vi abitano»: di certo si riferisce a Marianna Segati, la moglie del proprietario, la prima di una lunga serie di flirt. Alla sua grandezza di poeta, Byron unirà l’uso disinvolto della sua bellezza e la fama di amante. E così i salotti della Venezia bene se lo contenderanno per più di un motivo.
Ma anche tra le calli e lungo i canali, saranno tanti, dame e giovanotti, a scivolare tra le sue braccia. Bertel Thorvaldsen, il celebre scultore, ci mostra le sue labbra sensuali e il piglio deciso nel busto in mostra. Giovanni Battista Gigola lo ritrae più pensieroso, con l’occhio corsaro e i riccioli voluttuosi. Dopo una breve sortita a Roma, nel 1817 il poeta è di nuovo a Venezia. All’inizio preferisce una villa a Mira, poi ancora in laguna in quella che sarà la sua vera dimora. Arreda Palazzo Mocenigo scegliendo molti pezzi personalmente. Ama gli interni rinascimentali. Nel suo studio pone un leone di San Marco in pietra d’Istria e un cassone in noce con fregio nobiliare e tante scene di battaglia. Ma questo sarà anche il set della più spericolata delle sue avventure. Protagonista è la moglie di un fornaio, Margarita Cogni, «alta ed energica come una Pitonessa sacerdotessa di Apollo», così la descrive Byron. Una donna «adatta a generare gladiatori», magari convinta di domarlo, ma finendone allontanata. E così alla «fornaretta» non resta che lanciarsi nel vuoto.
Tutto incendia la fama romantica del poeta inglese che non solo ha imparato l’italiano, ma parla «ingenuo e curioso», anche il dialetto. E’ una star, soprattutto nel cenacolo delle due più famose e colte nobildonne della laguna: sono Giustina Renier Michiel e Isabella Teotochi Albrizzi, che qui troviamo ritratte da Luigi Zandomeneghi e Giambattista Comolli con postura altera e piglio ellenico com’è di moda allora. Un’ultima seduzione: Teresa Gamba, andata in sposa nel 1818, ad appena diciassette anni, al sessantenne e due volte vedovo Alessandro Guiccioli, l’uomo più ricco della Romagna. La conosce un anno dopo, nel salotto di Marina Benzoni. Da lì, la fuga a Ravenna.
Venezia mi piace tanto quanto mi aspettavo e mi aspettavo molto