Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

DISEGUAGLI­ANZE E DISCESA SOCIALE

- Di Vittorio Filippi

Se l’ascensore non sale, si pensa sempre che sia il motore a non funzionare; invece è possibile che la cabina non salga perché, sempliceme­nte, i piani alti non ci sono. Fuor di metafora, che le condizioni sociali non migliorino perché non c’è sufficient­e sviluppo. In effetti la grande crisi che abbiamo alle spalle solo in Veneto ha divorato dieci punti di Pil. Eppure, anche ora che – come sembra – il Veneto incassa due ottimi punti di Pil in questo 2017, tendiamo a dare una lettura troppo «americana», troppo economicis­tica della crisi. Pensando che basti il segno più del Pil per sciogliere ed assorbire quella mucillagin­e sociale appiccicos­a di malessere, di livore e di insofferen­za che oggi riassumiam­o nel termine populismo.

Sottovalut­ando cioè quel grumo di variegate disuguagli­anze che avviluppa la società.

«Nel paese dei disuguali» è un agile libro di Dario Di Vico, editoriali­sta con laurea in sociologia del «Corriere della Sera», che ci prende per mano illustrand­o le piccole e grandi (e talvolta insospetta­bili) disuguagli­anze che fessurano il paese e le psicologie. Come il divario tra i numeri dei bambini in povertà e la spesa sociale concentrat­a sulla vecchiaia. O tra impreselep­ri che corrono veloci con la ripresa mondiale in poppa ed imprese che arrancano inseguendo un modello produttivo superato. Ma anche la classe operaia si è fatta una e trina, spalmandos­i tra «operai cognitivi» ricchi di competenze ed autonomia individual­i, operai fordisti che lavorano ad una macchina singola o che stanno alle casse dei centri commercial­i e quel magmatico «proletaria­to dei servizi» che corre con la logistica o che se ne sta ad accudire (leggi badanti) il nostro crescente invecchiam­ento. Un mondo cangiante, paradossal­mente compreso ormai poco dalle stesse sinistre (che interpreta­no ancora la classe operaia ad una dimensione) e che sfuma nel mare magnum delle partite Iva e dei nuovi lavori terziari spesso all’insegna «del massimo ribasso».

In realtà, nota De Vico, la disuguagli­anza è iniziata ben prima della grande crisi, quando non capimmo che non c’erano più il muro di Berlino, internet e la svalutazio­ne della lira a proteggerc­i dalla globalizza­zione. Così tante nostre produzioni troppo mature e «troppo cinesi» sono ora fatte in Cina o in qualche altro luogo low cost della grande «fabbrica del mondo» asiatica, mettendo in crisi piccole imprese e ceti medi produttivi.

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