Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

«Il boato, le grida, ci salvammo per caso È giunta l’ora di scoprire tutta la verità»

- Andrea Alba

VENEZIA I «pizzini» del terrorista veneziano Carlo Maria Maggi, il soggiorno trevigiano di Fioravanti e quel filo nero che lega i Nuclei armati rivoluzion­ari alla colonna veneta di Ordine Nuovo.

È intorno a questo che ruota l’inchiesta che mercoledì ha portato al rinvio a giudizio di Gilberto Cavallini, sospettato di essere il quarto uomo della strage di Bologna. Perché, come scrive il giudice Alberto Ziroldi, anche se sono trascorsi 37 anni da quella bomba che il 2 agosto 1980, nella stazione centrale, provocò 85 morti e 200 feriti, non si può cancellare «l’imperativo etico, oltre che giuridico, di assolvere a un dovere di verità».

Per quella mattanza sono già stati condannati i terroristi dei Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini. Ora si potrebbe aggiungere Cavallini (il processo inizierà il 21 marzo), accusato di aver dato supporto al terzetto nelle ore immediatam­ente antecedent­i alla strage, ospitandol­i a Villorba di Treviso, prestando loro l’auto della compagna e aiutandoli a rimediare alcuni documenti falsi. L’indagato, che oggi ha 66 anni e sta scontando l’ergastolo per omicidio, secondo il giudice rivestiva un «ruolo di collegamen­to all’interno della galassia eversiva formatasi sul finire degli anni Settanta». Ed è partendo da qui che, nel dispositiv­o del magistrato, si arriva a ipotizzare che la scia di sangue, da Bologna, si sarebbe spinta fino in Veneto.

All’epoca, l’indagato aveva «stretti contatti con Massimilia­no Fachini (vicentino, condannato per banda armata,

ndr) di cui lo stesso Cavallini si dichiara allievo, Roberto Raho (il neofascist­a trevigiano che finì nell’inchiesta su Piazza Fontana, ndr) e Carlo Digilio (coinvolto anche per Piazza della Loggia, ndr) esponenti della frazione ordinovist­a veneta». Il giudice cita alcuni testimoni nel ricordare che Fachini e Cavallini avevano intenzione «di uccidere un magistrato Veneto» poi identifica­to nel giudice trevigiano Giancarlo Stiz «su iniziativa

«Ben venga un nuovo rinvio a giudizio per arrivare alla verità, completa su quelle iene che misero la bomba. Ancor più, ben vengano altre indagini per scoprire chi furono i mandanti».

Sono passati 37 anni dalla strage di Bologna. Pia Graziotto, vicentina era al primo binario. Lei si salvò con la figlia di 9 anni, Raffaella Biasin: entrambe ferite, la madre con una ferita ad un piede e la bimba con la mano trafitta da schegge di vetro. Sopravviss­ute a una mattanza che contò 85 morti, otto dei quali veneti: i vicentini Roberto De Marchi, Roberto Gaiola ed Elisabetta Manea, i rodigini Katia Bertasi e Maria Angela Marangon, i padovani Anna Maria Salvagnini e Antonella Marina Trolese, il veronese Davide Caprioli. Altri 200 i feriti, tra cui due padovani, quattro vicentini e un veronese.

Pia Graziotto, classe 1937, segue con attenzione le novità di questi giorni: il rinvio a giudizio di Gilberto Cavallini come presunto complice di Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, e la riapertura dell’indagine sui mandanti.

Graziotto, cosa pensa di queste due novità?

«Ritengo che se si è arrivati alla condanna, per Fioravanti e gli altri, la tesi dell’accusa fosse veritiera. Se ci sono elementi validi per accostare un quarto colpevole è giusto farlo. Purché si arrivi alla verità completa. Oggi non c’è». In che senso? «Non ci sono solo coloro che hanno materialme­nte deposto la valigia con la bomba. Manca la verità sui mandanti. Però temo che anche la procura generale non arriverà a scoprire cosa è successo. Troppi atti sono ancora secretati o sono stati fatti sparire, c’è stato un depistaggi­o. Lo ha denunciato pure il presidente dell’associazio­ne delle vittime...».

Partecipa alle cerimonie di commemoraz­ione?

«Ogni 2 agosto. Ma per noi è ancora difficile parlare dell’accaduto». Cosa ricorda di quel giorno? «È stata una mezza guerra. La mia famiglia si salvò per una serie di coincidenz­e. Ero andata a Bologna con Raffaella, per prendere la figlia più grande che rientrava da Senigallia, dove era andata con una maestra e altri bambini: dovevano salire proprio sul treno che fu sventrato dallo scoppio sul binario, invece per fortuna presero quello successivo». E voi che eravate lì? «Un’altra coincidenz­a. Io e mia figlia eravamo all’edicola dietro alla pensilina, per comprare il libretto con gli orari. A un tratto ci fu un boato, poi il buio assoluto. Un silenzio di tomba, nessuno fiatava. La bimba mi diceva che aveva perso gli occhiali. E poi iniziò il calpestio sui vetri dei superstiti, le urla, i lamenti, la gente si chiamava, disperata. La scena più spaventosa la vidi dall’auto che ci portò all’ospedale: la gente intorno al piazzale era appiattita sui muri delle case circostant­i, una massa enorme... È bene che si indaghi, ma stavolta trovino la verità per intero».

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