Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
In mostra al Ducale i primi 100 anni di Porto Marghera
Inaugurata la mostra che racchiude la storia di fabbriche e uomini. In esposizione in dieci stanze il cumulo di carbone di Jannis Kounellis, l’energia di neon, stoffa e legno, la fabbrica di Emilio Vedova e i video dell’Istituto Luce
l contemporaneo entra negli appartamenti del Doge. E’ una prima volta a Palazzo Ducale e non poteva avvenire se non mettendo in mostra l’altra Venezia, quella che si scruta dalla finestra di fronte e che quest’anno celebra il centenario. Si chiama semplicemente Porto Marghera 100, forse perché quel nome è così evocativo che ha una sua autosufficienza. O forse perché anche le parole si sono consumate, assieme alla terra, all’aria e all’acqua diventati in cent’anni tappeti inutili, inutilizzabili, pestilenziali, mortiferi. Nel frattempo sono scomparsi fabbriche e uomini, che all’apice dello sviluppo, nel 1965, si contavano in 229 aziende e almeno 32mila operai.
Come raccontare quella storia con le pulsioni dell’arte? «Per me è stata una doppia sfida», racconta Gabriella Belli, che dirige la Fondazione Musei Civici e ha curato la mostra. «Non sono veneziana e Porto Marghera non è parte della mia storia — dice —. In più dovevo conciliare la storia dell’arte con la cronaca, grande e minuta, di questo luogo». Porto Marghera nasce dalla visione di voler fare delle barene un porto, idea del capitano marittimo Luciano Petit e capitali del conte Giuseppe Volpi a capo della Sade, con la Banca commerciale italiana. Nel 1917, la firma tra Stato, Comune e Società Porto Industriale. Follia e gloria di una spregiudicata borghesia in nome dell’onnipotenza industriale. Porto Marghera è stato un gioco lost-lost per gli operai e per l’ambiente, e chi degli altri ha vinto avrebbe vinto comunque. Un album di famiglia di sopravvissuti e sconfitti. «Non c’era un posto più adatto di Palazzo Ducale, la casa di tutti e salotto buono della città — spiega la presidente dei Musei Civici, Maria Cristina Gribaudi —. E’ stata data dignità ai lavoratori di Porto Marghera». La mostra, aperta fino al 28 gennaio, è un
affresco preziose lungo del Ducale. 10 stanze, Il registro le più dell’arte aiuta a ricostruire là dove mancano le parole e a suturare là dove ne sono state dette
troppe. Il cumulo di carbone di
Jannis Kounellis, l’energia di neon, stoffa e legno di Mario Mertz, la fabbrica di Emilio Vedova, i
bachi giganti con la pelle di setole acriliche di Pino Pascali, i mostruosi dischi di ferro su rotaie di Eliseo Mattiacci, i volti
delle folle anonime di Anne-Karin Furunes. «Le parole sono i materiali, le materie prime da cui tutto è iniziato», nota la curatrice. Acqua, carbone, ferro, plastica, tessile, vetro: «L’arte rigenera i contenuti». Non una mostra sul lavoro, né una cronistoria. Ma una storia evocata e balbettante di relazioni tra uomini, macchine, passioni e lutti. Le foto, soprattutto la lunga serie di John Gossage («The Romance Industry»), fanno da sottotesto per aiutarci a stare in superficie. I
filmati, ritrovati in tanti archivi (prima di tutto Istituto Luce e Rai) e rimontati dal team di Gianpiero Brunetta dell’Università di Padova, sembrano una
colonna sonora di sussurri:
scorrono gli impresari fascisti e le fabbriche in subbuglio, i Caroselli e le liriche di poeti-operai (come Ferruccio Brugnaro, padre del sindaco di Venezia), le riflessioni lucide e amare di Gianfranco Bettin e il jingle dei
Pitura Freska. Cosa resta di quella storia partorita dal Novecento e diventata infertile? Bisogna tornare a Pino Pascali, che chiude l’esposizione nella sala delle carte geografiche e dei
mappamondi. Confluenze sono due lunghe vasche di alluminio e acqua blu di metilene. «Una
laguna, potremmo dire — riflette Gabriella Belli — metafora di un mare calmo».