Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Il Patriarca ospita i profughi in fuga
Il blocco della polizia, poi la telefonata di Moraglia: accolti nelle parrocchie. Loro urlano: «Viva l’Italia»
«Marciamo per dire che Cona va chiusa. È una prigione con 1.200 detenuti costretti a vivere dentro tendoni da 150 posti letto». Il serpentone dei profughi, partito martedì dall’ex base militare per raggiungere Venezia, non si ferma. Ieri pomeriggio è stato bloccato dagli agenti per «motivi di sicurezza» dopo l’incidente che è costato la vita a un migrante. Momenti di tensione. Poi la telefonata del Patriarca: li accoglierenno le parrocchie. L’urlo dei migranti: «Viva l’Italia».
A Naqash fa male la schiena. Sarà che ha trascorso la notte su una panca della chiesa di Codevigo, senza chiudere occhio. «C’era gente ovunque, sotto le statue della Madonna e sul pavimento», racconta. E ora che cammina con gli altri per la stradina di ghiaia che costeggia il fiume, pare schiacciato dallo zaino dal quale spuntano le coperte di lana, perché non si sa mai che anche questa notte tocchi trascorrerla al freddo. Accanto a lui ci sono Hamed l’ivoriano, e Camarà Alasane che dimostra meno dei suoi 32 anni ed è diventato uno dei leader della marcia dei migranti in fuga dal centro di accoglienza di Cona.
È un lungo serpentone di disperati partito martedì con l’intenzione di raggiungere Venezia e pretendere un incontro con il prefetto. Uomini, molti appena maggiorenni, con le valigie scassate e gli zaini e i borsoni stipati delle loro vite. Alcuni indossano vestiti troppo leggeri, le infradito ai piedi. Ricordano le immagini in bianco e nero dei migranti italiani in attesa di salire sui barconi per l’America, o quelle più recenti degli sfollati in fuga dalle bombe.
C’è chi rilegge gli ultimi messaggi dei genitori rimasti in Africa. Un ragazzo scorre sul telefonino le foto scattate al cadavere del suo amico Salif Traorè, l’ivoriano che mercoledì notte è stato travolto e ucciso da un’auto mentre cercava di unirsi a loro. «Siamo qui anche per lui», spiega. Poi insiste per mostrare i video girati all’interno del centro tornato a essere il simbolo di un’accoglienza che non funziona. «Marciamo per dire che Cona va chiusa. È una prigione con 1.200 detenuti costretti a vivere dentro tendoni da 150 posti letto, il riscaldamento a volte funziona e a volte no, mangiamo sempre le stesse cose e non c’è alcun tipo di integrazione», assicura Camarà. Figlio di un politico ivoriano («Papà è stato ucciso e sono dovuto scappare in Italia»), laureato in Economia, il portavoce della protesta dei neri ha imparato l’italiano da autodidatta.
Dopo la notte trascorsa nella chiesa di Codevigo, ieri mattina si sono messi in marcia in 240. «Si va a Mira. Trascorreremo la notte in una struttura messa a disposizione da una coop, e domattina raggiungeremo Venezia per portare la protesta di fronte alla prefettura», assicura Federico Fornasari, uno dei delegati delle Rsu arrivati a Cona per supportare la marcia. Si sbaglia: a Mira non arriveranno mai. Lo intuisce dopo neppure dieci chilometri di cammino.
A ridosso di Bojon, una piccola frazione di Campolongo Maggiore, il Brenta attraversa placido la campagna. Sul terrapieno c’è la stradina di ghiaia sottile percorsa dal corteo dei profughi. E in mezzo alla stradina, due uomini della Digos di Venezia. «Di qui non si passa, dovete tornare a Cona», spiegano. Alle loro spalle, un cordone di poliziotti in tenuta antisommossa con i caschi e gli scudi.
A mezzogiorno e mezzo, sotto un sole che non basta a riscaldare l’aria, inizia una trattativa portata avanti da Camarà e da Abouba Kar, un altro africano che parla italiano. Finirà cinque ore più tardi, quando è ormai buio e un ragazzo si è sentito male per il freddo.
Nel mezzo, ci sono lunghe discussioni tra i migranti, scene di tensione, con i pugni chiusi e gli slogan urlati a squarciagola. «Vogliamo i documenti!», «Anche noi siamo italiani!». Arriva il sindaco di Campolongo e la questura propone un accordo: «Il prefetto Carlo Boffi incontrerà una delegazione nella sala civica del Comune, ma nel frattempo gli altri dovranno rimanere qui». Proposta respinta. «Il resto del gruppo non può restare accampato sull’erba: non siamo animali».
Trascorre altro tempo, si alternano sfoghi di rabbia a silenzi surreali. Qualcuno toglie le scarpe, altri si avvolgono nelle coperte. Poi un richiamo che come un brivido scorre tra i volti stanchi dei profughi. Si alzano in piedi, compatti. E avanzano. I poliziotti calano il casco e tornano a imbracciare gli scudi. La mano sull’impugnatura del manganello. I migranti arrivano a dieci metri, e tutti sanno che su quel terrapieno che è come un imbuto che taglia ogni via di fuga - lo scontro comporterebbe conseguenze per entrambi i fronti. Si torna a trattare, stavolta tra le grida ma senza mai arrivare al contatto.
Infine l’annuncio: «Sarà il prefetto a venire qui». E un’ora dopo, a superare il cordone di agenti sono Carlo Boffi e il questore Vito Danilo Gagliardi. Di nuovo cala un silenzio di tomba, mentre Abouba Kar spiega che «da qui non torneremo indietro». Il prefetto tenta di convincerli. Rivendica di aver già disposto il trasferimento di altri venti richiedenti asilo: «Questa estate eravate in 1.500, ora siete in 1.100. So che quella base non è un albergo a tre stelle ma ogni giorno cerchiamo strutture e posti letto in tutto il Veneziano e non se ne trovano. Per ora non c’è alcuna alternativa». Niente da fare: i profughi non torneranno indietro, a costo di trascorrere la notte all’agghiaccio. A quel punto, Boffi si arrende: «Aspettatemi qui», dice prima di sparire dietro ai poliziotti.
Torna dopo pochi minuti e stavolta chiede un megafono. «Il patriarca di Venezia ha dato la disponibilità di alcune parrocchie ad accogliervi per la notte. Domani ci incontreremo di nuovo per trovare una soluzione definitiva». La tensione si scioglie in un lungo applauso, qualcuno si mette a ballare, altri cantano. I migranti gridano in coro: «Viva l’Italia! Viva l’Italia!».
Il prefetto appare sollevato mentre i richiedenti asilo salgono sui bus che li accompagnano nei patronati di Mira, Oriago, Borbiago e Gambarare. Non torneranno mai più a Cona? «Faremo tutto il possibile», assicura. Intanto si parla di altri profughi che avrebbero lasciato la base per unirsi alla marcia. «Spero non sia vero, perché posti letto non ce ne sono più».
Il prefetto Questa estate eravate in 1.500, ora siete in 1.100. So che Cona non è un albergo a tre stelle ma ogni giorno cerchiamo strutture e non se ne trovano. Per ora non c’è alternativa