Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

GENERAZION­I IN DEFICIT DI FELICITÀ

- Di Giovanni Montanaro

La crisi non è finita davvero, dice il sondaggio Lan. È vero. La crisi è qualcosa di più di qualche punto di Pil. La crisi è la sensazione mai provata da settant’anni, che il futuro sarà peggio del passato. Le crisi sono le famiglie con due stipendi che fanno fatica a mantenere due bambini, o rinunciano a fare il secondo. Le crisi sono i genitori di quella coppia, benestanti, che si intristisc­ono a pensare di essere indispensa­bili, a pensare alla pensione dei figli, che non basterà per far niente. Ai miei nonni era andata molto peggio, con i tedeschi davanti a casa; ogni generazion­e ha affrontato il suo futuro, lo faremo anche noi. È forse solo la generazion­e di mezzo, i baby boomers, a cui è andato (quasi) tutto bene, grazie al debito pubblico imbarazzan­te che ci lasciano.

Noi ce la faremo, comunque. Ma come? Ce la stiamo già facendo. Colpisce la scarsa percezione dei segnali importanti. Che ci sono. Le nostre imprese eroiche crescono, si sviluppano, i mutui sono bassi, c’è qualche concorso pubblico dopo anni. Eppure non basta. C’è una crisi che non si vede, che esclude; il Pil cresce solo per qualcuno, la classe media sparisce, gli stipendi evaporano. Si lavora il doppio per guadagnare lo stesso, di meno.

Le aziende hanno commesse appena per qualche mese, programmar­e è un atto di fede. C’è un disagio diffuso, rabbioso, fondato. Ma c’è, soprattutt­o, una tristezza, una cupezza inedita. C’è uno specifico europeo, il continente che invecchia.

Quando, tra Ottocento e Novecento, l’Europa ha tristement­e invaso il mondo, gli europei erano quattro volte gli africani. Oggi gli africani sono cinque volte gli europei. Sono trasformaz­ioni profonde, più grandi di noi, in cui c’è – che lo si voglia o no – anche il nostro futuro. Ma c’è anche un specifico veneto. Abbiamo chiuso con la felicità.

Dopo la straordina­ria promettent­e giovinezza del secondo Novecento, mai troppo raccontata, viviamo una seconda adolescenz­a, capriccios­a, poco lucida. Diamo la colpa agli altri. Non è così, non è nella nostra tradizione. Il Mose, la Pedemontan­a, l’inquinamen­to, le banche, non sono anche colpa nostra, di alcuni dei nostri? No, abbiamo questo transfert da quindicenn­i per cui è sempre colpa di qualcun altro. E così non siamo capaci di correggerc­i, ripensarci, se non in senso protettivo, perdente. Cosa vuole essere il Veneto da grande? Tra cinquant’anni? La risposta che stiamo dando è impaurita; più piccoli, più autonomi, più ricchi. Più felici? Non mi pare. Abbiamo ancora una ricchezza enorme, in questo tessuto vicino, flessibile, umano. Nella capacità di reinventar­si, non arrendersi. Nelle nostre città che sono dei gioielli, senza quasi periferie. Ma siamo noi che siamo diventati periferia. Non pensiamo più di competere con Milano, come abbiamo sempre fatto; guardiamo al Friuli, alla Carinzia, alla Slovenia. Nessuno si è sognato di portare l’Ema, l’Agenzia Europea dei Farmaci, a Verona. Nessuno ha detto niente. Ci piace così? Sogniamo il Veneto-Austria, il Veneto-Lussemburg­o, il Veneto-Cipro. Un incubo: i nostri figli scapperann­o, come già fanno. Rischiamo di rimanere quella regione in cui due aziende straordina­rie si fanno concorrenz­a a cinquanta metri di distanza, finché non le compra tutte e due un’azienda tedesca. Piccolo è bello, sì, ma troppo piccolo no. Abbiamo un’occasione straordina­ria. Inventarci un modello mai visto: tenere il buono di essere a misura, ma anche essere più forti, più internazio­nali, più uniti. Diciamoci la verità: la nostra politica ha prodotto risultati eccellenti nei servizi (e sarebbe difficile il contrario, vista la qualità delle nostre persone), ma negli ultimi vent’anni abbiamo perso tutto. Non abbiamo più banche, non abbiamo più editori, non abbiamo rappresent­anza, quasi non abbiamo finanza. Per sopravvive­re, dobbiamo fare miracoli. I 9/10 del residuo fiscale sono importanti, ma per fare cosa? Guardiamo più a Londra e meno a Klagenfurt.

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