Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Prosciutto cotto caldo Il piatto che sa di identità

A Trieste, nei tipici buffet, resiste la tradizione del rebechin, lo spuntino di tutti

- Di Carlo Tomaso Parmegiani

C’è chi sostiene che triestini non si debba per forza nascere, ma si possa diventare innamorand­osi di quella che Umberto Saba definì la «scontrosa grazia» di questa città cosmopolit­a e multicultu­rale che conserva con gelosia la sua atmosfera mitteleuro­pea.

Per scoprire l’anima profonda di Trieste oltre che nel mix di popoli, culture, lingue e religioni, bisogna addentrars­i anche nella sua particolar­e cultura gastronomi­ca frutto di una forte contaminaz­ione fra tradizioni culinarie diverse.

Ecco allora che entrando nei buffet, i più tipici fra i locali triestini, amati da giovani e meno giovani, si potranno assaggiare i sardoni impanai o

in savor, il bacalà mantecato, la jota, la minestra de bobici, le patate in tecia, la porzina (coppa di maiale lessa) con capuzi (crauti), le luganighe de

cragno (chiamate così perché originarie della Carniola slovena) e gli altri lessi che compongono la tipica «caldaia», per finire con lo strucolo de pomi, la putizza o il presnitz.

Il cibo, però, più amato dai triestini e che caratteriz­za la vita dei buffet, è il «cotto caldo» ossia il prosciutto cotto lentamente a vapore (talvolta in crosta di pane) che, bloccato in un morsetto tenuto sul bancone, è tagliato a mano e servito caldo con la senape o il kren (rafano). Un piatto consumato abitualmen­te, magari accompagna­to a qualche altra pietanza tipica, a pranzo come a cena. È, però, sotto forma di «panin de coto caldo» o di «rodoleto de cotto» (un paio di fettine infilate su uno stuzzicade­nti) che i triestini mangiano il cotto caldo in qualsiasi momento della giornata, accompagna­ndolo con un «calicetto» di vino o di spritz (vino bianco allungato con acqua frizzante o seltz, secondo l’uso austriaco) o con una birretta. È il cosiddetto rebechin, un’usanza oggi diffusa a tutti i livelli sociali, ma che risale all’abitudine degli scaricator­i di porto che, a metà mattina, sentivano già i morsi della fame e la necessità di fare un piccolo spuntino. Dal punto di vista produttivo la tradizione del «cotto caldo» affonda le sue radici nell’epoca austrounga­rica, quando circa 150 anni fa i coniugi trentini Masé, arrivarono a Trieste, portandosi dietro le tecniche trentine di lavorazion­e dello speck e degli affumicati. Furono proprio loro a ideare il «cotto Praga» chiamandol­o come la città che tanto amavano, ma con la quale, in realtà, quel prosciutto non ha nulla a che fare. Oggi a realizzare i vari tipi di prosciutti cotti abitualmen­te utilizzati nei buffet, oltre alla Masè, che mantiene la tradizione iniziata dai coniugi trentini con lo stabilimen­to e diversi punti vendita in città, ci sono il salumifici­o Sfreddo fondato nel 1967 da Giorgio Sfreddo, che, oltre allo stabilimen­to cittadino, vanta un punto vendita inaugurato lo scorso anno in via Cesare Battisti 1 a Trieste, ai piedi di un prestigios­o palazzo, testimonia­nza del liberty triestino di inizio secolo scorso. E il prosciutti­ficio Principe che, sebbene oggi sia uno dei maggiori produttori di crudo di San Daniele, nel suo originario stabilimen­to triestino da oltre 60 anni produce cotti e altri salumi.

Produttori a parte, per assaggiare il tipico cotto caldo triestino bisogna visitare uno dei circa quindici buffet rimasti in città. Ce ne sono anche di più recenti e «rivisitati», ma per un primo approccio è forse meglio partire da quelli che conservano gli usi e le atmosfere tradiziona­li come da Pepi (Pepi S’ciavo), da Siora Rosa e da Giovanni. Il primo, Pepi S’ciavo, fondato nel 1897 dallo sloveno (da cui il soprannome S’ciavo) Pepi Klajnsic, e sopravviss­uto nonostante le persecuzio­ni subite in epoca fascista a causa della provenienz­a slava dei proprietar­i, oggi è gestito con grande rispetto della tradizione da Paolo Polla, per il quale: «Il cotto caldo identifica Trieste».

Il secondo, fondato nel 1921 dalla mitica siora Rosa che lo condusse vita natural durante fino al 1972, da 42 anni è portato avanti con grande cortesia dalla siora Albina Facco, insieme al marito Lorenzo e ai figli Morena, Maurizio e Monica, tutti originari di Jesolo Lido, in provincia di Venezia, ma ormai completame­nte «triestiniz­zati» per amore della città. Albina ancora oggi, a 79 anni, comincia a cucinare alle due di notte «perché – dice – quando preparo il cotto caldo, la caldaia e gli altri piatti, non voglio nessuno tra i piedi».

Da Giovanni, infine, fondato da Giovanni Vesnaver 57 anni fa e dove ancora si vedono le tipiche botti a muro per la mescita del vino, oggi è condotto con passione dal figlio Bruno che sottolinea come il bello dei buffet sia anche vedere come «a qualsiasi ora i grandi manager e i politici di grido mangino un panin o un rodoleto fianco a fianco con il portuale o l’imbianchin­o».

Quale scegliere? Se avete tempo, tutti e tre.

La tradizione La storia del «cotto caldo» affonda le sue radici nell’epoca austrounga­rica, quando circa 150 anni fa i coniugi trentini Masé arrivarono a Trieste, portandosi dietro le tecniche trentine di lavorazion­e dello speck e degli affumicati

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I protagonis­ti In alto in grande il prosciutto cotto. A sinistra Da Giovanni, sopra Da Pepi, sotto Siora Rosa

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