Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Prosciutto cotto caldo Il piatto che sa di identità
A Trieste, nei tipici buffet, resiste la tradizione del rebechin, lo spuntino di tutti
C’è chi sostiene che triestini non si debba per forza nascere, ma si possa diventare innamorandosi di quella che Umberto Saba definì la «scontrosa grazia» di questa città cosmopolita e multiculturale che conserva con gelosia la sua atmosfera mitteleuropea.
Per scoprire l’anima profonda di Trieste oltre che nel mix di popoli, culture, lingue e religioni, bisogna addentrarsi anche nella sua particolare cultura gastronomica frutto di una forte contaminazione fra tradizioni culinarie diverse.
Ecco allora che entrando nei buffet, i più tipici fra i locali triestini, amati da giovani e meno giovani, si potranno assaggiare i sardoni impanai o
in savor, il bacalà mantecato, la jota, la minestra de bobici, le patate in tecia, la porzina (coppa di maiale lessa) con capuzi (crauti), le luganighe de
cragno (chiamate così perché originarie della Carniola slovena) e gli altri lessi che compongono la tipica «caldaia», per finire con lo strucolo de pomi, la putizza o il presnitz.
Il cibo, però, più amato dai triestini e che caratterizza la vita dei buffet, è il «cotto caldo» ossia il prosciutto cotto lentamente a vapore (talvolta in crosta di pane) che, bloccato in un morsetto tenuto sul bancone, è tagliato a mano e servito caldo con la senape o il kren (rafano). Un piatto consumato abitualmente, magari accompagnato a qualche altra pietanza tipica, a pranzo come a cena. È, però, sotto forma di «panin de coto caldo» o di «rodoleto de cotto» (un paio di fettine infilate su uno stuzzicadenti) che i triestini mangiano il cotto caldo in qualsiasi momento della giornata, accompagnandolo con un «calicetto» di vino o di spritz (vino bianco allungato con acqua frizzante o seltz, secondo l’uso austriaco) o con una birretta. È il cosiddetto rebechin, un’usanza oggi diffusa a tutti i livelli sociali, ma che risale all’abitudine degli scaricatori di porto che, a metà mattina, sentivano già i morsi della fame e la necessità di fare un piccolo spuntino. Dal punto di vista produttivo la tradizione del «cotto caldo» affonda le sue radici nell’epoca austroungarica, quando circa 150 anni fa i coniugi trentini Masé, arrivarono a Trieste, portandosi dietro le tecniche trentine di lavorazione dello speck e degli affumicati. Furono proprio loro a ideare il «cotto Praga» chiamandolo come la città che tanto amavano, ma con la quale, in realtà, quel prosciutto non ha nulla a che fare. Oggi a realizzare i vari tipi di prosciutti cotti abitualmente utilizzati nei buffet, oltre alla Masè, che mantiene la tradizione iniziata dai coniugi trentini con lo stabilimento e diversi punti vendita in città, ci sono il salumificio Sfreddo fondato nel 1967 da Giorgio Sfreddo, che, oltre allo stabilimento cittadino, vanta un punto vendita inaugurato lo scorso anno in via Cesare Battisti 1 a Trieste, ai piedi di un prestigioso palazzo, testimonianza del liberty triestino di inizio secolo scorso. E il prosciuttificio Principe che, sebbene oggi sia uno dei maggiori produttori di crudo di San Daniele, nel suo originario stabilimento triestino da oltre 60 anni produce cotti e altri salumi.
Produttori a parte, per assaggiare il tipico cotto caldo triestino bisogna visitare uno dei circa quindici buffet rimasti in città. Ce ne sono anche di più recenti e «rivisitati», ma per un primo approccio è forse meglio partire da quelli che conservano gli usi e le atmosfere tradizionali come da Pepi (Pepi S’ciavo), da Siora Rosa e da Giovanni. Il primo, Pepi S’ciavo, fondato nel 1897 dallo sloveno (da cui il soprannome S’ciavo) Pepi Klajnsic, e sopravvissuto nonostante le persecuzioni subite in epoca fascista a causa della provenienza slava dei proprietari, oggi è gestito con grande rispetto della tradizione da Paolo Polla, per il quale: «Il cotto caldo identifica Trieste».
Il secondo, fondato nel 1921 dalla mitica siora Rosa che lo condusse vita natural durante fino al 1972, da 42 anni è portato avanti con grande cortesia dalla siora Albina Facco, insieme al marito Lorenzo e ai figli Morena, Maurizio e Monica, tutti originari di Jesolo Lido, in provincia di Venezia, ma ormai completamente «triestinizzati» per amore della città. Albina ancora oggi, a 79 anni, comincia a cucinare alle due di notte «perché – dice – quando preparo il cotto caldo, la caldaia e gli altri piatti, non voglio nessuno tra i piedi».
Da Giovanni, infine, fondato da Giovanni Vesnaver 57 anni fa e dove ancora si vedono le tipiche botti a muro per la mescita del vino, oggi è condotto con passione dal figlio Bruno che sottolinea come il bello dei buffet sia anche vedere come «a qualsiasi ora i grandi manager e i politici di grido mangino un panin o un rodoleto fianco a fianco con il portuale o l’imbianchino».
Quale scegliere? Se avete tempo, tutti e tre.
La tradizione La storia del «cotto caldo» affonda le sue radici nell’epoca austroungarica, quando circa 150 anni fa i coniugi trentini Masé arrivarono a Trieste, portandosi dietro le tecniche trentine di lavorazione dello speck e degli affumicati