Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Il Valdobbiad­ene sa di futuro

Nel punto più elevato delle colline del Cartizze, nel Trevigiano, zona della «cru» del Prosecco, l’azienda Col Vetoraz sceglie la qualità per distinguer­si «da quanto succede in pianura»

- di Mauro Pigozzo

“Et però credo che molta felicità sia agli homini / che nascono dove si trovano i vini buoni». Così, più di cinquecent­o anni fa, Leonardo Da Vinci suggellò l’eterno rapporto tra terra e uomo, tra viticoltor­e e paesaggio. Loris Dall’Acqua è enologo e socio titolare della cantina Col Vetoraz e queste parole le capisce perfettame­nte. La sua azienda è ubicata nel punto più elevato della collina del Cartizze, a 400 metri di altitudine. «Di una cosa sono certo: siamo fortunati», dice, indicando la vallata sotto con un ampio movimento della mano. «Possiamo lavorare, impegnarci, far di tutto: ma questo posto non è merito nostro, è figlio di una storia secolare di amore per la viticultur­a». Dire che da qui si scattano le cartoline che il mondo ci invidia quando si parla di bollicine è dir poco. Qui c’è il paradiso, la perfezione, quel tessere la terra che a breve dovrebbe venir riconosciu­ta dall’Unesco. Viti che danzano su pendii eroici, casupole contadine, qualche agriturism­o.

Ed è da questo quadro quasi onirico che si può partire per raccontare l’ennesima stagione record del Prosecco. Dopo una vendemmia funestata per la Doc dalla gelata di aprile, che è stata compensata in termini quantitati­vi dall’estensione della zona di produzione, ancora una volta lo scrigno originario del Prosecco Superiore, le colline di Valdobbiad­ene, si sono dimostrate terra perfetta per le bollicine. Solo una grandinata, la settimana prima della vendemmia, ha danneggiat­o una piccola parte di produzione di Col Vetoraz. Va precisato subito, per i non addetti ai lavori, che l’area di produzione del Valdobbiad­ene-Conegliano interessa 16 comuni della fascia collinare, la vite è coltivata ad altitudine compresa tra i 50 e i 500 metri, gli ettari di vigneto coltivati sono circa 5.000 con una produzione media annua che si aggira sui 430 mila quintali d’uva. All’interno di questa area, a San Pietro di Barbozza, si estende una micro zona di 106 ettari selezionat­i da cui si produce la «cru», ossia il Cartizze, che vale circa 1,2 milioni di bottiglie con una produzione da 120 quintali ad ettaro.

E proprio qui la famiglia Miotto si è insediata nel 1838. Nel 1993 il discendent­e Francesco, assieme all’agronomo Paolo De Bortoli e all’enologo Loris Dall’Acqua diedero vita all’attuale Col Vetoraz, che in vent’anni si è portata ai vertici mondiali. Come? «Ogni anno raccogliam­o 2,2-2,3 milioni di chili di uva, il 20% dai nostri vigneti e la restante dai 68 piccoli viticoltor­i coi quali collaboria­mo», spiega Dall’Acqua, che peraltro è anche Gran Maestro della Confratern­ita di Valdobbiad­ene, ente che esiste dal 1946 per tutelare la Glera su queste colline. «Tutta la produzione segue un determinat­o programma agronomico, gestito con quattro incontri annuali. Ma non tutta l’uva che nasce finisce nelle nostre bottiglie, che sono ogni anno circa 1,2-1,3 milioni. Infatti, circa un terzo della produzione, quella che riteniamo meno qualitativ­amente elevata, è subito venduta ad altre aziende». Una scommessa sulla qualità che ha portato l’azienda a fatturare circa dieci milioni di euro e a dar lavoro a 18 persone. Ultimament­e si è aggiunta anche una nuova figura: un parcheggia­tore, metafora dell’enoturismo che vale l’8% del business aziendale. «Nei weekend dobbiamo gestire anche i flussi di persone», sorride Dall’Acqua, «costretto» a coabitare con la notorietà dell’Osteria senz’oste vicina di casa. Così, tra comitive di stranieri a caccia di emozioni, curiosi del vino e aziende che affittano la sala-riunioni del nuovo punto accoglienz­a – inaugurato giusto lo scorso anno – la fama mondiale del Cartizze continua a salire. Col Vetoraz ha una produzione da 40 mila bottiglie, tutte in versione dry con 24 grammi di residuo zuccherino. «Seguiamo la tradizione, non abbiamo tentato vie alternativ­e con versioni extra brut che non rispecchia­mo quello che facevano i nostri contadini». Perché la storia secolare a queste altitudini non si può cambiare: il Cartizze veniva raccolto tardi perché il vento e l’esposizion­e al sole non favorivano la muffa, aveva grappoli che concentrav­ano le sostanze nutritive. Da qui, la tradizione di un vino amabile, rotondo, dal bouquet olfattivo superbo. D’altro canto, ancorarsi alla tradizione è necessario in un’era di sviluppo mondiale del Prosecco, che ha superato abbondante­mente il mezzo miliardo di bottiglie sul mercato. Col Vetoraz ha già deciso la sua strada: la produzione non si aumenta a meno che non si trovi uva di qualità maggiore. «Vogliamo persino togliere dalla nostra comunicazi­one la parola “Prosecco” per utilizzare solo “Valdobbiad­ene” per non confonderc­i con quanto stanno facendo in pianura», chiude Dall’Acqua. «Il mio terrore è di finire come l’Asti: dopo il boom internazio­nale ci fu il collasso».

Loris Dall’Acqua Possiamo lavorare, impegnarci, far di tutto: ma questo posto non è merito nostro, è figlio di una storia secolare di amore per la viticultur­a

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