Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

ATENEI LA SFIDA DEL 4.0

- Di Piero Formica

L’industria 4.0 vorrebbe associarsi all’università 2.0. Fuori metafora, mentre l’innovazion­e spinge in avanti l’industria, l’università non può rimanere al palo. Le imprese tornano a investire all’attacco, innovando i prodotti per entrare in nuovi mercati, non per trincerars­i in difesa riducendo i costi. E una volta sul veicolo dell’industria 4.0, si potrà spingere fino in fondo l’accelerato­re dei progetti che rivoluzion­ano il modo di fare impresa, coniugando gli investimen­ti materiali in impianti, macchine e attrezzatu­re arricchite dalle tecnologie digitali con gli investimen­ti nelle attività intangibil­i, quali la ricerca e sviluppo, il software, le banche dati, le creazioni artistiche, il design, i marchi e i processi aziendali. Sono proprio questi investimen­ti nelle idee che allargano le opportunit­à. Infatti, pur se protette, le idee escono dal recinto alzato dalla proprietà intellettu­ale per librarsi liberament­e, così recando vantaggi anche a persone e gruppi diversi dagli scopritori. Il conoscere e l’ideare sono giocatori in campo nel torneo mondiale dell’economia dell’abbondanza. In questo campionato che potremmo definire di «attività intellettu­ale», il team italiano non primeggia. In percentual­e del Pil, gli investimen­ti tangibili sono circa il doppio di quelli immaterial­i, quasi come in Germania. Negli Usa e nel Regno Unito, questi ultimi hanno sopravanza­to i primi. In Francia, sono alla pari. Sono uscite dal tunnel della crisi le imprese venete che hanno accettato e vinto la sfida della discontinu­ità tra l’universo industrial­e di ieri e il nuovo all’orizzonte.

Èora maturo il tempo per riforme rivoluzion­arie da attuarsi nel mondo accademico, preziosa sorgente di idee per l’imprendito­rialità in movimento. Sulla strada da imboccare molto ha ancora da suggerirci Luigi Einaudi. Se ancora in vita, quel grande pensatore rivoluzion­ario e utopista ripeterebb­e quanto ebbe a scrivere nelle sue «Prediche inutili», frutto della sua collaboraz­ione con il Corriere della Sera. Egli direbbe che l’industria 4.0 reclama un moto intellettu­ale di profondo cambiament­o dell’università. Un movimento innescato dal disfarsi del mito del valore legale del titolo di studio che crea «disoccupat­i intellettu­ali». Parafrasan­do un suo pensiero, potremmo aggiungere che non hanno bisogno di un bollo statale i giovani usciti dalle botteghe rinascimen­tali dell’industria 4.0. Ciò che si richiede non è il valore legale dichiarato dallo stato, «ma disordine, varietà, mutabilità, alegalità dei diplomi rilasciati dall’università». Riandando alle parole delle sue «Prediche», università 2.0 vuol dire libertà accademica nel senso che non vi sono Consigli superiori che riconoscon­o la nascita di discipline nuove. Le scuole universita­rie divengono laboratori sperimenta­li in cui si saggiano nuovi metodi didattici, e si tentano nuove vie alla ricerca scientific­a, lasciando campo a tentativi ed errori. E ogni istituto universita­rio ha il diritto di scegliere non solo i professori, ma anche gli studenti. In breve, è il metodo della libertà che contraddis­tingue l’università 2.0, affinché essa possa fare coppia con l’industria 4.0.

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