Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Nino Migliori, luce e sperimentazione nella fotografia
Una mostra a Padova dedicata all’artista bolognese. Dal neorealismo alla recente serie sulla Tunisia
Anovantun anni è tornato bambino, a ruzzolare per terra in mezzo ai pargoletti dai due ai cinque anni, accolto come uno di loro: finché non si è tolto la coppola che ha sempre in testa, e loro hanno visto i capelli bianchi e hanno detto: «ma allora, Nino, sei vecchio». Nino Migliori, che definire fotografo è poco e inesatto, non sta nella pelle dentro la quale hanno infilato un po’ di titanio per farlo stare in piedi: «Gli ultimi due anni e mezzo sono stati i più belli della mia vita», frase se volete usuale, magari scontata ma che fotografa un’esperienza unica. Quei bambinetti «puri, liberi, ancora senza condizionamenti» sono stati l’inesauribile molla di fantasia in un terreno inesplorato della fotografia. Il patriarca Migliori li ha trasformati in fotografi, e senza macchina fotografica. Carta sensibile, mani, rivelatore, fissatore, oggetti e la più sfrenata libertà: il gioco diventa non solo creativo, ma in grado di produrre fotografie. Tutto questo, un progetto unico al mondo nato alla Fondazione Mast di Isabella Seragnoli, è già programmato come mostra al MAXXI di Roma, dalla primavera in poi. Dai fotogrammi di tre metri quadrati, alle composizioni con oggetti recuperati, alla visualizzazione di storie, sostanzialmente racconti di luce, e le riprese tv che documentano ogni passo della fantasia impubere: dovrebbe essere stupefacente, e spiazzante, e fuori da tutti gli schemi usati finora per la fotografia. I piccoli hanno capito subito. Hanno detto: «Per fare le foto senza la macchinetta ci vogliono le mani e Nino Migliori».
Lui ci è abituato, a fotografare senza fotocamera. Alcuni esempi si possono vedere in questi giorni a Padova, palazzo Angeli, nel piano sottostante al museo del precinema, che il comune ha dedicato alle «Stanze della fotografia» affidandolo alle cure di Alberto Zotti. Allestimento pulitissimo per ospitare le immagini di Migliori, sotto il titolo «Alla luce dello sperimentare» (aperta fino al 18 febbraio, ingresso libero), pulizia formale a far da cornice a esplosioni concettuali, idea che si intreccia con l’artigianato anche manuale di chi cerca il bello nei minimi fenomeni naturali. Esempio: frammenti circolari di cellophane, che sovrapposti danno vita a meraviglie – colorate – di rifrazione della luce, fissati direttamente sulla carta sensibile. È il chiodo fisso di Migliori, la sperimentazione, frequentata quando, negli stessi anni, era anche la fascinazione delle altre arti. Il dopoguerra – Migliori è del 1926, comincia a fotografare nel ‘49 – è un respiro profondo, «il momento di riorganizzare la vita, prima ci si confrontava con la paura per la sopravvivenza»; c’era voglia di «conoscere, viaggiare, provare». Migliori prova in continuazione, sempre, anche se è capace di fare lo splendido neorealista: tutti ricordano il suo tuffatore orizzontale, i reportage dal sud Italia e dalla sua Emilia, ma contestualmente cerca e ricerca. Lucigrafie, cellogrammi, stenopeogrammi, pirogrammi, ossidazioni, perfino cancellazioni non sono battesimi sconclusionati da artista: sono procedimenti, dentro i quali si annida la voracità dell’osservare e dell’inventare. Non a caso Migliori in quegli anni ‘50 frequenta artisti visionari. A Venezia Emilio Vedova e Tancredi, tutti squattrinati, tutti assetati di novità. Una sera si ritrovano da Peggy Guggenheim, che della musa non ha l’aspetto ma il cervello sì, loro tre con la padrona di casa che spacchetta il primo Jackson Pollock arrivato in Italia, e fanno notte fonda ubriacandosi di emozioni e discussioni. Migliori fotografa Peggy e le sue foto – tra le migliaia che l’ereditiera si è fatta scattare – sono le uniche esposte oggi nei musei Guggenheim di Venezia e New York.
Dice Migliori: «Per fotografare non serve la macchina fotografica». Il che ti lascia tra l’attonito e il basito, ma poi capisci. La componente fondamentale è la luce, come per la scrittura l’inchiostro: adopera la luce, non la penna, non la fotocamera. La luce essa stessa è grafia, e finché la luce entra nel processo di fissazione dell’immagine si può parlare di fotografia. Se non c’è la luce, se produci immagini con un computer, non è più fotografia. Ma quanti modi! Si capisce che, come per la scrittura, alla base di tutto c’è l’idea, poco importa lo strumento; anzi, l’idea si estende nell’invenzione di strumenti nuovi. A palazzo Angeli c’è una sala preziosa, quasi tutti inediti, di una raffinatezza che può spaventare i «classici», l’informale all’estremo, perfino un po’ di Vedova che plana sulla carta sensibile,come in un lucigramma del ‘55. Ma sono testimoniati i lavori una vita, fino a quest’anno. Con la recente serie «Tataouine», immagini scattate in Tunisia che sembrano classiche – eh sì, questa volta con la macchina fotografica – ma sono la continuazione di un percorso mai abbandonato: materia pura, concrezioni; materia che, lo direste?, si smaterializza nell’informale rimanendo potente.
Migliori a 91 anni continua, galvanizzato dal titanio che lo fa dannare ai metal detector negli aeroporti; fra un mese butterà via il bastone e farà la girandola tra le sette mostre che lo attendono in giro, dopo le centinaia che l’hanno celebrato finora. Quando si ferma, nel suo studio ex capannone di verniciatura in periferia a Bologna, continua nel suo ultimo progetto: fotografa persone alla luce di un fiammifero, già 350 foto scattate, diventerà un libro per un’iniziativa benefica. S’infiamma a spiegarti com’è la luce della fiammella: vagula blandula, niente ombre secche, ti fa perfino sparire le rughe. Ricerca, sempre. Dice: «Mai fatto foto per mestiere, per professione». Per vivere ha fatto l’art director di un’azienda. Per fortuna che, nel tempo libero, gli è piaciuta la fotografia.