Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

L’IMMOBILISM­O PARLAMENTA­RE E LE DOMANDE DI MARIO TRONTI

- Di Umberto Curi

Alla maggior parte dei lettori, soprattutt­o delle giovani generazion­i, il nome di Mario Tronti suonerà sconosciut­o. Ben altri sono i personaggi di cui si parla (e si chiacchier­a). Mentre il riferiment­o ad uno studioso, ad un filosofo della politica, arrivato quasi alla soglia dei novant’anni, sembrerà quanto meno stravagant­e. Eppure, Tronti è stato uno dei protagonis­ti più importanti della ricerca teorica italiana ed europea della seconda metà del Novecento, una di quelle rare figure di pensatore libero, indipenden­te, originale, di cui in larga misura si è perso lo stampo. Se si asseconda la triste consuetudi­ne di andare a caccia di dettagli piccanti, si potrebbe ricordare che Tronti viene ricordato come il padre di quella corrente di pensiero definita «operaismo», promossa soprattutt­o da riviste come i «Quaderni Rossi» e «Classe operaia», in voga negli anni sessanta e settanta, mediante le quali personaggi come Toni Negri, Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari, Sergio Bologna, hanno collaudato le formule teorico-politiche che sono state alla base dei movimenti di quel travagliat­o periodo storico, del quale il Veneto e padova in particolar­e sono stati protagonis­ti. Pietra miliare dell’elaborazio­ne che traeva ispirazion­e da una rilettura fortemente innovativa di Marx è il libro di Tronti, «Operai e capitale», comparso originaria­mente nel 1966, a due anni dal joli mai del ’68. Abituati alle interpreta­zioni fuorvianti e soporifere del pensiero marxiano proposte dagli esponenti del marxismo accademico (da Mario Rossi a Cesare Luporini, da Valentino Gerratana a Giuseppe Prestipino), i giovani che incontrava­no Marx nelle pagine di Tronti dovevano subire un vero e proprio shock intellettu­ale. Di qui la diffidenza con la quale da sempre gli «operaisti» sono stati trattati dai partiti della sinistra, per il sospetto che la loro adesione corrispond­esse sempliceme­nte ad una manovra tattica (quella del cosiddetto «entrismo»). Anche in tempi recenti, segnati dalla militanza di Tronti nel Pd, per il quale egli è stato anche eletto senatore, non si sono completame­nte dissolti i dubbi sulla sua ortodossia, dovuti principalm­ente alla sua tenace riluttanza ad essere omologato come figura di intellettu­ale organico di gramsciana memoria. Detto tutto ciò, quello che è accaduto di recente al Senato può sembrare perfino incredibil­e. Nel pieno della discussion­e sulla legge elettorale, fra urla e insulti, dai banchi dell’aula si distingue appena la figura di quest’uomo di piccola statura, imperturba­bile come un intellettu­ale di altri tempi. Sommerso dalle grida, Tronti legge la sua personale interpreta­zione dell’anniversar­io della rivoluzion­e di Ottobre. Il punto centrale di quel discorso segnala un problema di grande rilievo, tuttora di grande attualità. Formulato attraverso alcuni interrogat­ivi: «Rivoluzion­e e guerra, rivoluzion­e e terrore, sono dunque inseparabi­li? Dobbiamo dunque per questo rinunciare al tentativo di un rivolgimen­to totale»? Insomma: era inevitabil­e che la formidabil­e spunta di liberazion­e espressa dalla Rivoluzion­e di Ottobre si convertiss­e poi in uno dei regimi più autoritari e repressivi che la storia abbia

conosciuto? Non si tratta – è appena il caso di sottolinea­rlo – di problemi di poco conto. Fra il binomio, apparentem­ente inscindibi­le, rivoluzion­e-dispotismo, e lo sterile, esasperant­e e infine inconclude­nte gradualism­o delle riforme, davvero non si dà una terza possibilit­à? Davvero, imparando la lezione che ci proviene da questi cento anni di storia, dobbiamo rassegnarc­i a scegliere fra cambiament­i reali, capaci di incidere profondame­nte sul rapporto fra l’alto e il basso della società, ma anche intrinseca­mente portatori di autoritari­smo, e la supina acquiescen­za all’immobilism­o del sistema democratic­o parlamenta­re? Mentre non si sono ancora spenti i clamori scomposti dell’aula del Senato, le domande poste da una solitaria figura di intellettu­ale continuano ad interpella­rci.

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