Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Studenti (e prof) in cucina la scuola diventa ristorante
Recoaro, l’Alberghiero si mette sul mercato: ieri l’inaugurazione
Inaugurato il «Ristorante didattico Artusi». Menu fisso a 15 euro per i piatti preparati dagli allievi dell’alberghiero. Sarà aperto tutti i mezzogiorni, escluso il sabato e la domenica secondo, ovviamente, l’orario scolastico. Si tratta, infatti, di un «atelier pedagogico», una fucina d’apprendimento. Insomma, si consumano i piatti frutto delle lezioni di cucina, il tutto rigorosamente con ingredienti di stagione, un occhio alla tradizione regionale e uno all’innovazione.
Viva la gola, crepi l’avarizia. Bravi gli studenti dell’alberghiero «Artusi» di Recoaro Terme che ieri hanno inuagurato il loro ristorante didattico - opera in «corpore vili», ci possiamo andare tutti, primo, secondo, aqua vino e dessert a 15 euro avaro il comune di Forlimpopoli che ha vietato loro di chiamarlo «Casa Artusi».
Il sindaco del paese romagnolo che ha dato i natali al grande Pellegrino Artusi - «La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene» - ha telefonato alla direzione didattica della scuola recoarese che pure ne porta il nome: «Di Casa Artusi ce n’è una sola, la nostra – ha detto – ho qui pronta la lettera dell’avvocato». Ecco, è così che i piatti, come le ciambelle, qualche volta non riescono col buco. Ma è un inconveniente da poco: in cucina si cambia in corsa e ogni bravo cuoco sa come girare la frittata e fare di ogni difficoltà virtù.
Anzi, meno sono gli ingredienti e più ci guadagna il palato. Il laboratorio recoarese di cucina è stato prontamente ribattezzato «Ristorante didattico Artusi», che suona anche meglio. Sarà aperto tutti i mezzogiorni, escluso il sabato e la domenica. Orario scolastico e impegno manuale, è atelier pedagogico e fucina d’apprendimento, la roba vi è insegnata, cotta a mangiata con immediato feedback dal commensale che non può lamentarsi: non a quel prezzo, non con quello che ieri hanno messo in tavola, «ingredienti di stagione, con un occhio alla tradizione regionale e uno all’innovazione» spiega il professor Giorgio Santaliana.
In cucina ci passiamo tutti, dalla cucina si va dappertutto. Il marito va preso per la gola raccomandavano le nostre nonne, in cucina ci passa la politica – ricordate il risotto di D’Alema? – Franza o Spagna purché se magna, al caldo dei fornelli si accende anche l’eros - ve la ricordare l’Antonella Clerici del «io non posso vivere senza c.»? – la cucina laurea star, ispira film e alimenta il mito del successo televisivo con un più di perversione guardona che adesso è diventata pura tauromachia, esercizio sadomaso del potere assoluto e pubblicamente ostentato.
Gli ingredienti sono una tavolozza, ai ragazzi vengono dati come i colori per costruire l’opera. Così da una scuola di cucina si può andare dappertutto: Carlo Cracco viene da lì, Lorenzo Cogo e Giancarlo Prebellini anche.
I ragazzi sono 181 divisi su cinque classi, tre le specializzazioni: cucina, accoglienza turistica e mise en place (addetti alla sala). Matteo, dopo il diploma farà diplomazia a Trieste – «l’accoglienza turistica è un ramo delle scienze politiche» – studierà russo – «i russi sono disposti a pagare di più per il solo fatto di sentirsi parlare in russo». Elen Karen, brasiliana, girerà il mondo, Nicola Cavion, figlio di un affermato imprenditore delle costruzioni, al posto sicuro in azienda, ha preferito i fornelli: «I nonni erano ristoratori – spiega il padre – l’istinto ha saltato una generazione e ha ripreso con lui. Io ne sono contento».
Cosa si impara in cucina? Tutto. Pazienza, coordinazione, tempismo e savoire-faire. «Ai tavoli impari a mandare giù rospi e a sorridere di fronte alla maleducazione». La ristorazione è la cosa che più si avvicina al nostro vecchio servizio militare e vedere in azione il professor Giorgio Santaliana è un piacere cinematografico: somigliava a Vissani da far paura e cazziava i ragazzi come il sergente maggiore di «Full metal jacket». Girava, riprendeva, raddrizzava e incitava ciurma dalla sua tolda che pareva il capitano Achab di Melville.
«Dovete farne sessanta (di coperti, ndr) datevi una mossa. E pulisci quel mestolo! Attenzione tu, giallo e rosso sono più liquidi (la guarnitura in besciamella dei cannelloni era tricolore e ogni colore aveva la sua siringa). Non sprecarla! E’ inutile che la metti al centro del piatto, il centro del piatto è coperto dai cannelloni». Non Stanley Kubrick, era il film «Ratatouille» senza il topo dentro il cappello con i ragazzi che si muovevano indiavolati spinti dai tempi di cottura, che correvano accaldati ostacolandosi a vicenda perché chiaramente in troppi per il lavoro necessario e perciò ancora più indaffarati, tesi alla meta o trattenuti in seconda fila come corde di violino in attesa del loro turno.
La cagnara era tale che il caposala - il professor Bonato – ad un certo punto è entrato in cucina e ha intimato il silenzio. «Zitti che vi sentono tutti. E tu che porti la bottiglia, tieni alta l’etichetta, il vino va visto». Perché, quando si sono aperte le ante mobili che separano il caos dall’ordine e dalla sala sono entrare le ancelle delle portate, i due mondi inizialmente separati hanno celebrato l’incontro per il quale si erano preparati, lo stesso momento, la spiegazione di tutto nell’intesa di cenno con i piatti che si allontanavano sulla via dei tavoli seguiti dall’occhio dei cuochi.