Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
POLITICHE, TEST PER LE CIVICHE
All’indomani delle elezioni amministrative della scorsa primavera, lo scenario del Veneto era il seguente: a Verona, la lista Tosi è il primo partito (16%) e il suo rassemblement civico è al 23%; la lista Sboarina è al 13% mentre Lega (8%) e Forza Italia (3%) arrancano; altre liste civiche, varie ed eventuali, raggiungono un ragguardevole 10%. A Padova la lista Bitonci è il primo partito col 24%, con la Lega al 6% e Forza Italia al 4%; il candidato di Coalizione civica Arturo Lorenzoni è quasi al 23%, mentre il Pd, che sostiene Giordani, sprofonda dal 25 al 13%. Ma il risultato più eclatante è a Belluno, dove arrivano al ballottaggio due candidati senza simboli di partito: Massaro, 46%, e Gamba (che ha costretto Forza Italia a rinunciare alla sua bandiera) 25%. In termini generali, i partiti – quale che sia la loro collocazione – fanno registrare sconfitte perfino clamorose, mentre si affermano ovunque, e anche qui senza distinzioni significative fra destra e sinistra, le liste di ispirazione civica. Un dato ulteriore, per lo più erroneamente sottovalutato, è la secca battuta di arresto dei 5 stelle, rimasti fuori dai ballottaggi, evidentemente perché percepito dall’elettorato come componente, sia pure anomala, dell’establishment dei partiti. A distanza di sei mesi dall’esito ora descritto, caratterizzato da un’imponente affermazione del fenomeno del civismo, ci si può chiedere cosa resti di questa importante esperienza.
C he cosa sopravviva e che cosa sia invece precocemente tramontato. Se ci si attiene ad una valutazione per quanto possibile obbiettiva, il primo dato che balza agli occhi è una caduta generalizzata della tensione politica. Sia là dove le liste civiche hanno vinto (come a Padova e Belluno), sia là dove hanno perso (come a Verona), si è assistito ad un forte ridimensionamento della partecipazione dei cittadini, congiunta ad una pur modesta ripresa dell’iniziativa dei partiti. Emerge qui un primo dato complessivo, che si presente come un paradosso, riassumibile nei seguenti termini. Fino a che si tratta di conseguire un obbiettivo politico le liste civiche prosperano, mentre non appena chiuse le urne, quando vi sono sul tappeto i problemi connessi all’amministrazione di una città, la spinta partecipativa si attenua, fino a scomparire. A rifletterci, questo dato appare sconcertante, visto che ci si attenderebbe esattamente il contrario. Una possibile spiegazione può essere individuata in un aspetto abitualmente trascurato. Il processo decisionale relativo alla molteplicità delle esigenze concrete di una comunità, e più ancora la stessa «macchina» organizzativa di un’amministrazione locale, esigono tempi e modalità di esercizio incompatibili con i tempi e la logica di funzionamento di soggetti informali, quali sono quelli che innervano i movimenti civici. Non si tratta, è bene ribadirlo, di limiti o incoerenze soggettive di coloro che sono stati chiamati alla guida di quella macchina, quanto piuttosto della necessità di adattarsi alle regole materiali che ne sono alla base. Di qui l’aprirsi di una sfasatura che è inesorabilmente destinata ad ampliarsi, e che potrebbe presto o tardi condurre ad una vera e propria frattura, difficile da rimediare. Emerge qui, fra gli altri, un tema che per miopia o ignoranza è stato accantonato nel dibattito politico recente. Le amministrazione locali funzionano a regime attraverso una esasperata riduzione di complessità, e soprattutto mediante il sistematico tagliafuori di ogni possibile rapporto con le domande e le esigenze della società civile. Così come è ora strutturata l’amministrazione di un comune esclude di principio ogni apertura che consenta un fisiologico interscambio fra decisioni e partecipazione. Perdurando lo scenario ora abbozzato, il deperimento del fenomeno del civismo è irrevocabilmente segnato.