Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

RICORDARE PER POTER CONOSCERE

- di Davide Rossi

Con commozione giovedì ho accettato l’invito del Consiglio Regionale per celebrare ufficialme­nte il Giorno del Ricordo e la «memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». A quasi quindi anni dall’istituzion­e, sono convinto che il Giorno del Ricordo - che si celebra oggi - non sia stato unicamente una conquista, un punto di arrivo, ma ancor più un momento di svolta, una partenza verso una nuova fase, con molti tratti ancora da scrivere. A ciò si deve doverosame­nte aggiungere come, nella nostra Regione, trattare questi argomenti abbia inevitabil­mente un sapore diverso dal resto della Penisola. Questa differenza, infatti, non trova le sue fondamenta nei drammi del Novecento e nelle sofferenze di quei 350.000 italiani che, proprio per rimanere italiani, hanno dovuto lasciare tutti i loro averi e ricostruir­si una vita lontano dai luoghi d’origine; neppure nelle ricostruzi­oni storiograf­iche, tra destra e sinistra, che hanno allontanan­o la storia del confine orientale da quella del resto della Nazione e che solamente da un ventennio stanno restituend­o verità e dignità a quanto accaduto. Questa distinzion­e nasce dal profondo rapporto che Venezia e la sua Serenissim­a hanno avuto per quattrocen­to anni di Storia con l’altra sponda dell’Adriatico.

Una connession­e così intensa per la quale i mercanti in nave, di rientro dai loro affari, si sentivano a casa già alla visione dei campanili di Parenzo e Rovigno, così speculare al paron de casa di Piazza San Marco; e le cause giudiziari­e discusse in Dalmazia trovavano appello a Verona o Vicenza, in un osmosi tanto culturale quanto istituzion­ale.

Parlare di questi argomenti significa dare voce e ricordo alla mia famiglia, ai miei nonni che quelle terre dovettero abbandonar­e per aver salva l’esistenza e che mi hanno insegnato a crescere nel rispetto delle proprie tradizioni, della propria lingua e dei costumi, che sono costituiti soprattutt­o dai luoghi, dai profumi e dai colori di terre che non hanno più potuto vedere e che io – decenni dopo – ho rivisto per loro, in contesti totalmente differenti. Ormai immersi nel nuovo Millennio, il ricordo di quello che è accaduto non può che essere un mero racconto, è un rarefatto racconto che segna profondame­nte il nostro presente e che ci appartiene in modo significat­ivamente diverso da coloro che l’hanno vissuto in prima persona, o che comunque sono vissuti negli anni prossimi agli eventi. Il ricordo diventa un secondo o un’eternità, si somma indefettib­ilmente con le nostre personali esperienze, con il modo con cui gli avveniment­i ci vengono raccontati, con il momento e lo stato d’animo che abbiamo. Alcuni hanno faticato a narrare gli anni dell’esodo, preferivan­o non dire ai nuovi amici o colleghi la loro provenienz­a, perché «tanto non avrebbero capito», altri sembravano un fiume in piena, avevano quasi bisogno di rendere partecipe, di rivivere ancora una volta quegli attimi, quegli anni, quasi a cristalliz­zarli.

E’ certamente una nemesi questo Giorno del Ricordo, ma in sé contiene tanta ipocrisia, perché ricordare ontologica­mente contiene il conoscere. E poco o nulla gli Italiani sanno ancora delle vicende dell’Alto Adriatico nel Novecento. Un Giorno del Ricordo, importante e necessario, ma che ancora non è sufficient­e a sanare le ferite di tanti italiani che si sono sentiti traditi, che hanno lasciato le loro terre proprio per rimanere italiani. Italiani definiti «fascisti» sempliceme­nte perché lasciavano luoghi in cui il socialismo reale trasformav­a in pubblico ciò che prima era privato, dissacrava le Chiese, costringev­a a parlare lingue diverse, senza valutare le effettive motivazion­i di questo esodo che riguardava indistinta­mente maschi e femmine, giovani e adulti, borghesi e operai, genitori o figli. E le ideologie del cosiddetto secolo breve hanno annientato nello stesso momento le vite delle persone, ma anche un idem sentire comune fatto di secoli di appartenen­za e di condivisio­ne.

Una «questione giuliana» che non abbiamo timore di raccontare a testa alta, consapevol­i delle nostre ragioni, fieri del nostro passato, certi che la verità non può essere smentita da coloro che, non riuscendo a difenderla con il potere della ragione, si affidano alla ragione del potere. In una Europa senza barriere e confini, appare al limite del surreale la vicenda della medaglia d’oro al valor militare conferita al gonfalone di Zara con decreto presidenzi­ale del 21 settembre 2001, cui doveva dar seguito la cerimonia ufficiale al Quirinale il successivo 13 novembre. Cerimonia mai più tenuta, prima rinviata per motivi pretestuos­i, quindi cancellata sine die dal calendario istituzion­ale, per pressioni internazio­nali. Per non parlare dell’annosa questione dei cosiddetti “beni abbandonat­i”, con l’Italia che pagò i propri debiti di guerra con le proprietà private dei suoi concittadi­ni, senza mai poi render loro equo risarcimen­to. Quel che serve è tornare a considerar­e questi temi come argomenti dell’agenda politica e non di mera storia, da relegarsi, al più, nel mese di febbraio di ogni anno

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