Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
RICORDARE PER POTER CONOSCERE
Con commozione giovedì ho accettato l’invito del Consiglio Regionale per celebrare ufficialmente il Giorno del Ricordo e la «memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». A quasi quindi anni dall’istituzione, sono convinto che il Giorno del Ricordo - che si celebra oggi - non sia stato unicamente una conquista, un punto di arrivo, ma ancor più un momento di svolta, una partenza verso una nuova fase, con molti tratti ancora da scrivere. A ciò si deve doverosamente aggiungere come, nella nostra Regione, trattare questi argomenti abbia inevitabilmente un sapore diverso dal resto della Penisola. Questa differenza, infatti, non trova le sue fondamenta nei drammi del Novecento e nelle sofferenze di quei 350.000 italiani che, proprio per rimanere italiani, hanno dovuto lasciare tutti i loro averi e ricostruirsi una vita lontano dai luoghi d’origine; neppure nelle ricostruzioni storiografiche, tra destra e sinistra, che hanno allontanano la storia del confine orientale da quella del resto della Nazione e che solamente da un ventennio stanno restituendo verità e dignità a quanto accaduto. Questa distinzione nasce dal profondo rapporto che Venezia e la sua Serenissima hanno avuto per quattrocento anni di Storia con l’altra sponda dell’Adriatico.
Una connessione così intensa per la quale i mercanti in nave, di rientro dai loro affari, si sentivano a casa già alla visione dei campanili di Parenzo e Rovigno, così speculare al paron de casa di Piazza San Marco; e le cause giudiziarie discusse in Dalmazia trovavano appello a Verona o Vicenza, in un osmosi tanto culturale quanto istituzionale.
Parlare di questi argomenti significa dare voce e ricordo alla mia famiglia, ai miei nonni che quelle terre dovettero abbandonare per aver salva l’esistenza e che mi hanno insegnato a crescere nel rispetto delle proprie tradizioni, della propria lingua e dei costumi, che sono costituiti soprattutto dai luoghi, dai profumi e dai colori di terre che non hanno più potuto vedere e che io – decenni dopo – ho rivisto per loro, in contesti totalmente differenti. Ormai immersi nel nuovo Millennio, il ricordo di quello che è accaduto non può che essere un mero racconto, è un rarefatto racconto che segna profondamente il nostro presente e che ci appartiene in modo significativamente diverso da coloro che l’hanno vissuto in prima persona, o che comunque sono vissuti negli anni prossimi agli eventi. Il ricordo diventa un secondo o un’eternità, si somma indefettibilmente con le nostre personali esperienze, con il modo con cui gli avvenimenti ci vengono raccontati, con il momento e lo stato d’animo che abbiamo. Alcuni hanno faticato a narrare gli anni dell’esodo, preferivano non dire ai nuovi amici o colleghi la loro provenienza, perché «tanto non avrebbero capito», altri sembravano un fiume in piena, avevano quasi bisogno di rendere partecipe, di rivivere ancora una volta quegli attimi, quegli anni, quasi a cristallizzarli.
E’ certamente una nemesi questo Giorno del Ricordo, ma in sé contiene tanta ipocrisia, perché ricordare ontologicamente contiene il conoscere. E poco o nulla gli Italiani sanno ancora delle vicende dell’Alto Adriatico nel Novecento. Un Giorno del Ricordo, importante e necessario, ma che ancora non è sufficiente a sanare le ferite di tanti italiani che si sono sentiti traditi, che hanno lasciato le loro terre proprio per rimanere italiani. Italiani definiti «fascisti» semplicemente perché lasciavano luoghi in cui il socialismo reale trasformava in pubblico ciò che prima era privato, dissacrava le Chiese, costringeva a parlare lingue diverse, senza valutare le effettive motivazioni di questo esodo che riguardava indistintamente maschi e femmine, giovani e adulti, borghesi e operai, genitori o figli. E le ideologie del cosiddetto secolo breve hanno annientato nello stesso momento le vite delle persone, ma anche un idem sentire comune fatto di secoli di appartenenza e di condivisione.
Una «questione giuliana» che non abbiamo timore di raccontare a testa alta, consapevoli delle nostre ragioni, fieri del nostro passato, certi che la verità non può essere smentita da coloro che, non riuscendo a difenderla con il potere della ragione, si affidano alla ragione del potere. In una Europa senza barriere e confini, appare al limite del surreale la vicenda della medaglia d’oro al valor militare conferita al gonfalone di Zara con decreto presidenziale del 21 settembre 2001, cui doveva dar seguito la cerimonia ufficiale al Quirinale il successivo 13 novembre. Cerimonia mai più tenuta, prima rinviata per motivi pretestuosi, quindi cancellata sine die dal calendario istituzionale, per pressioni internazionali. Per non parlare dell’annosa questione dei cosiddetti “beni abbandonati”, con l’Italia che pagò i propri debiti di guerra con le proprietà private dei suoi concittadini, senza mai poi render loro equo risarcimento. Quel che serve è tornare a considerare questi temi come argomenti dell’agenda politica e non di mera storia, da relegarsi, al più, nel mese di febbraio di ogni anno