Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
I destini incrociati nella Padova di Claudia Grendene
Il romanzo «Eravamo tutti vivi» è l’esordio di Claudia Grendene Le storie di sette amici, una narrazione che copre vent’anni
Èuna full immersion in una Padova percorsa in ogni angolo, il romanzo d’esordio di Claudia Grendene, bibliotecaria, nata a Villafranca di Verona, ma da sempre vissuta a Padova. Attraverso le storie di sette amici seguiti e narrati negli ultimi vent’anni, Grendene in Eravamo tutti vivi (Marsilio, 282 pagine, 17 euro) mette a fuoco una città, un’epoca e il mutare di un tessuto sociale e politico.
Dai centri sociali alla borghesia, dal muro di via Anelli alle rivolte studentesche, dagli scontri politici all’amoreggiare sui muretti della Specola, l’autrice porta in scena luoghi e personaggi, sogni e realtà di un gruppo di giovani che, come spesso accade, dovrà poi scontrarsi con le disillusioni dell’età matura. Amori perfetti che quando si trasformano in matrimoni diventano gabbie soffocanti e passioni osteggiate che invece non si spegneranno mai.
Ideali di libertà che inseguono utopia e rivoluzione ma si scontreranno con la morte. Il palcoscenico su cui si muovono i sette protagonisti è il tipico oscillare tra poesia e bellezza della giovinezza e degli anni universitari in cui tutto sembrava possibile, e l’amaro risveglio dell’età adulta. E la domanda - quando si ritrovano tutti al funerale di uno di loro, il più sognatore sembra d’obbligo: «Che cosa abbiamo fatto delle nostre vite? Delle nostre speranze? Dei nostri desideri?»
Colpisce soprattutto l’abilità con cui Claudia Grendene ha saputo raccontare Padova, le vie, i locali, i portici, i riti, il cappuccino da Graziati, le tartarughe che segnano l’arrivo della primavera quando fanno capolino dal laghetto del parco Iris. Svela perfino, in parte, l’identità di Kenny Random, che è un po’ l’Elena Ferrante dei writer, ma che a Padova tutti sanno chi è. E poi c’è Casarini, leader dei centri sociali e simbolo per molti giovani ribelli. Una Padova narrata così efficacemente si trova solo nei romanzi di Romolo Bugaro. Anche se lì il racconto resta più focalizzato su abitudini, luoghi e riti della borghesia. E chissà se è un caso che uno dei protagonisti di
Eravamo tutti vivi sia proprio un ragazzo affascinante e tormentato che poi diventerà avvocato e scrittore, arrivando finalista al Premio Campiello (che nella fiction romanzesca diventa Premio Venezia).
Buona questa prova d’esordio dell’autrice padovana: raccontare sette personaggi, incrociarli tra loro, saltare tra presente e passato, è una sfida davvero impegnativa anche per uno scrittore d’esperienza. Eravamo tutti vivi racconta di Max innamorato di Agnese. Isabella che ama Elia. L’aristocratico Alberto ama (osteggiato) la cugina Anita. Chiara s’innamora di Max, ma poi sposa Giovanni. Una trama complessa negli avvicendamenti, che prende spunto a piene mani dai fatti di cronaca. Un romanzo corale in cui per la generazione cresciuta negli ultimi vent’anni è facile riconoscersi: amore, figli, divorzi, tradimenti, fughe, morte.
La vita non fa sconti. Alla fine, il messaggio è universale: guardandosi indietro il rimpianto e la nostalgia per «quelli che eravamo quando tutto sembrava possibile» ha spesso, troppo spesso il sopravvento sulla serena accettazione di «ciò che siamo diventati».
Nel ritratto del gruppo di amici che di colpo si trova schiacciato tra la responsabilità di una famiglia o il rimpianto di non averla avuta, torna tutta la tematica cara a tanti altri libri e film sull’argomento, che hanno sviscerato «la meglio gioventù» e quel brusco risvegliarsi dalle utopie alla quotidianità.
Anche qui ciò che accomuna i protagonisti è, in varie forme, l’anelito alla libertà: la rinuncia più grande che l’età adulta porta con sé. In ogni generazione.
Dai centri sociali a via Anelli, ideali e passioni che si scontrano con le avversità della vita