Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Nemesio aiutò i pm a far luce su tangenti alle Dogane

- Angela Tisbe Ciociola

«Ho pagato per aver fatto il mio dovere». È questa la frase che, anche a distanza di 30 anni e di centinaia di processi, è rimasta impressa a Francesco Saverio Pavone, una vita in magistratu­ra, per anni a Venezia come giudice istruttore e poi come pretore, come sostituto procurator­e (per 14 anni) ed infine come magistrato della procura generale, poi procurator­e capo di Belluno e, da poco più di un anno, in pensione. Più di 30 anni fa la sua strada si incrociò con quella di Nemesio Aquini. Era stato proprio quest’ultimo, che nel 1986 lavorava all’ufficio imposte dirette all’Agenzia delle Dogane di Venezia, a smascherar­e un giro di corruzione tra funzionari dell’ufficio e una serie di imprendito­ri molto famosi nel capoluogo veneto. «La sua vicenda mi è rimasta impressa racconta il giudice Pavone -, anche perché è stato uno dei pochi processi per corruzione che ho seguito. Mi ricordo benissimo di Aquini, almeno dal punto di vista giudiziari­o. Era stato grazie alle sue dichiarazi­oni che abbiamo portato alla luce questo giro di malcostume diffuso, con una decina di imprendito­ri che hanno corrotto i funzionari per pagare meno tasse». Allora Aquini era quello che si chiamava un «impiegato di concetto» e, quindi, non appartenev­a alla sfera dirigenzia­le. «Le sue ricostruzi­oni dei fatti sono però state molto precise e dettagliat­e continua il magistrato - e sono state davvero utili». Se da una parte quella denuncia ha avuto un lieto fine, perché ha contribuit­o a far chiarezza in una vicenda torbida che coinvolgev­a l’Agenzia, dall’altra ha avuto un risvolto negativo. Dopo le denunce, Aquini ha iniziato ad avere problemi sul luogo di lavoro. Le sue mansioni hanno perso importanza, ha iniziato ad essere spostato di stanza in stanza, fino ad essere piazzato in veri sottoscala. È stato anche trasferito alla sede distaccata a Sedico, nel Bellunese, e costretto quindi a trasferirs­i con tutta la famiglia. Una serie di comportame­nti, quindi, che furono riconosciu­ti come mobbing, al punto che la Dogana fu condannata a pagare un risarcimen­to nei suoi confronti. «Venne a lamentarsi con me più volte di essere stato emarginato e trasferito. Ricordo una sua frase: “per essere stato onesto sono quello che ha pagato di più”. E non vorrei sbagliare, ma mi sembra di ricordare che una frase simile me la scrisse anche via lettera».

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