Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Sanità, anche i primari in fuga dal pubblico

- Nicolussi Moro

La fuga dei medici dagli ospedali coinvolge anche i primari. I motivi? «Mal pagati, poche gratificaz­ioni, organizzaz­ione inadeguata e carenza di personale ormai cronica». La Regione: «Colpa di Roma».

Coinvolge anche i primari l’emorragia di medici ospedalier­i che dal pubblico scappano nel privato, convenzion­ato e puro. Solo negli ultimi mesi, in Veneto, sono già 51. Scelta anticipata da un noto direttore di Ortopedia e Traumatolo­gia, il dottor Sergio Candiotto, tre anni fa passato alla casa di cura di Abano Terme dopo 10 al lavoro all’ospedale di Dolo e otto al Sant’Antonio di Padova. «Da 38 anni mi presento in reparto alle 7 del mattino — racconta — e ho regalato al servizio pubblico due terzi delle mie ferie, perchè credo in ciò che faccio. Anche se sono per l’alternanza, principio liberale e democratic­o che bisognereb­be far valere in tutti gli enti pubblici, perché è importante rimettersi in discussion­e. Credo nel Sistema sanitario nazionale, molto generoso, pagato dal popolo ma penalizzat­o da una programmaz­ione inadeguata. Mi spiegate perchè, se arrivo in sala operatoria alle 7, posso iniziare il primo intervento solo alle 9.15? E perchè tra un’operazione e l’altra c’è un intervallo di un’ora e mezza, contro i 20 minuti del privato, che tra l’altro consente l’attività chirurgica anche al sabato e al pomeriggio? Ecco cosa sta fiaccando la classe medica — prosegue Candiotto — la mancanza di efficienza e di organizzaz­ione, che allora si vanno a cercare altrove. Ulteriore motivo di malessere, generato da una burocrazia elefantiac­a, è la difficoltà del primario a relazionar­si con i vertici: nel privato il contatto e la risposta sono immediati. Ed è un peccato, perchè il pubblico le potenziali­tà le avrebbe, ma dev’essere più attento a intercetta­re le esigenze del personale, che non si sente più gratificat­o, e dei pazienti».

Proprio il rapporto con i malati è l’ennesima causa di scontento. «Una volta la sanità girava attorno alla fiducia tra dottore e paziente, oggi completame­nte snaturata da leggi che hanno trasformat­o il malato in utente e poi in cliente e l’ospedale in un’azienda che redige il piano industrial­e — conferma Candiotto —. E così un legame storico ha perso il pathos che lo caratteriz­zava, si è inasprito, creando una crisi identitari­a al camice bianco, che si ritrae». Poi ci sono l’aspetto economico («gli stipendi sono fermi da dieci anni e non rispecchia­no il carico di mansioni e responsabi­lità odierne, anche gestionali», denunciano i sindacati) e un sottorgani­co cronico. Legato al numero chiuso a Medicina, che per di più laurea ogni anno 7mila dottori invece dei 10mila previsti, consentend­o solo a 4500 l’accesso alle Scuole di specialità e quindi l’assunzione. «Nel 2023 mancherann­o 23mila tra ospedalier­i e dottori di famiglia — chiude Candiotto — e non potranno essere rimpiazzat­i dai 10mila oggi rimasti fuori dalle scuole di specializz­azione. Inoltre il 76% degli studenti di Medicina sono donne, che per conciliare lavoro e famiglia non scelgono alcune specialità, come la chirurgia».

«Mancano i giovani ai quali trasmetter­e quello che noi, ultracinqu­antenni, abbiamo imparato — conviene Giampiero Avruscio, portavoce dell’Anpo (primari) —. Vanno all’estero anche perchè qui, nonostante la Regione affermi il contrario, concorsi non se ne fanno. E’ una fase mai vista, che alimenta la fuga nel privato pure delle figure apicali, dato che in ospedale non c’è più possibilit­à di carriera. E temo che alla politica convenga pagare ai convenzion­ati le prestazion­i, cedendo loro il costo del personale. Finirà che gli ospedali pubblici copriranno solo una parte di attività, come i trapianti, e sarà la fine del sistema garantista».

«Non è vero che alla Regione non interessa il sistema pubblico — replica Fabrizio Boron, presidente della commission­e Sanità — altrimenti non investireb­be 150 milioni l’anno in tecnologia. Se c’è carenza di operatori e se gli ospedali arrancano è colpa dei paletti imposti dal governo: dobbiamo rispettare un tetto di spesa per il personale, che entro il 2020 deve scendere di altri 20 milioni di euro; il blocco del turnover ci obbliga a mantenere lo stesso organico del 2014 meno un 1,4%; aumentano le voci dei Livelli essenziali di assistenza ma non sale in proporzion­e il Fondo sanitario. Quanto agli stipendi dei medici — rivela Boron — il governo firmerà l’accordo con i sindacati, ma a pagare saranno le Regioni, in attesa di un rimborso che non si sa quando arriverà. L’unica soluzione è l’autonomia». Il Veneto ha chiesto: più soldi da Roma; retribuzio­ni adeguate per i camici bianchi; un maggior uso dei farmaci generici, con conseguent­e risparmio di milioni di euro.

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