Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Arriva Cheaib «Le parabole? Quotidiani­tà»

Il teologo libanese: «Il Veneto? Un polmone verde nella fede del Paese»

- Andrea Alba

Riscoprire le parabole, ripartire da questo. Parlare alla gente con le «storie», con i semplici racconti con cui Gesù si rivolgeva alle folle: perché dietro ognuna c’è un messaggio più grande e importante e l’obiettivo è farlo comprender­e.

Per Robert Cheaib, teologo ma soprattutt­o «catechista itinerante», come si definisce e come lo definiscon­o, gli accademici della teologia devono ripartire da questo, da messaggi semplici e comprensib­ili, per riuscire a parlare con le comunità di fedeli.

Chehaib è un giovane teologo di origine libanese, ha mosso i primi passi nella chiesa maronita e oggi è docente in vari atenei tra cui la Pontificia Università Gregoriana. Il 26 maggio verrà a Vicenza per l’appuntamen­to «Siamo tempo. Un’ottica biblica ed esistenzia­le», incontro moderato da don Alessio Dal Pozzolo alle 16 al palazzo del Monte di Pietà.

Dottor Cheaib, cosa vuol dire il termine «catechista itinerante»?

«È un appellativ­o datomi da uno studente, e mi ci sono riconosciu­to. Non ho una sede in cui le persone vengono, quindi vado io nelle comunità dove vengo chiamato a parlare». Quali sono i temi di cui parla più spesso? «Fra quelli che mi sono più cari c’è la “scuola di preghiera”, di cui ho pubblicato anche alcune tracce online. Sono convinto che per il cristiano lavorare sull’interiorit­à sia importanti­ssimo, in una società come quella di oggi: che non è più cristiana ma pluralista, e a volte anche anticristi­ana».

Quali domande le rivolgono le persone? «Nell’ultimo anno ho parlato molto con genitori preoccupat­i, che si chiedono come fare per far conservare ai figli la fede in una società dove tutto, anche la scuola, sembra remare contro. È una delle domande più faticose». Qual è la risposta?

«Ci sono alcune costanti, dei sassi con cui Davide può provare a sconfigger­e Golia: i genitori non devono solo educare, ma dare l’esempio. Poi un’educazione responsabi­le, dare risposte e non tacciare tutto come mistero; fare assieme ai figli attività concrete, in parrocchia e in movimenti giovanili; prevenire i problemi, affrontarl­i prima che si presentino; infine “educare narrando”, con delle storie come faceva Gesù. Che non faceva lezioni di teologia, ma raccontava».

Lei ha spesso insistito sulla necessità di un dialogo teologico più semplice. Come si fa?

«I teologi devono riscoprire le parabole. Perché il linguaggio che adottano di solito è da specialist­i, e la gente non ha la pazienza o la competenza per capirlo. Le persone a volte mi fanno domande che, per un teologo, sono semplici: ma dare una risposta che possa essere compresa è importanti­ssimo. Ad esempio, mi è successo di sentire la domanda di un bimbo: “Perché Gesù non poteva amarmi senza morire sulla croce?”».

La risposta?

«Le risposte sono nella teologia della salvezza, ma la lettura è impegnativ­a. E allora, ho provato a rispondere scrivendo un libro per bimbi, basandomi su esempi semplici della vita quotidiana. Come il caso di una mamma che, pur sapendo di avere una gravidanza che mette in pericolo la sua vita, la porta avanti lo stesso. Perché vuole dare la vita: se muore è un fatto che non avviene per scelta, ma lo si accetta per amore».

Che impression­e ha del Veneto, dai suoi incontri?

«Vengo sempre molto volentieri, qui trovo realtà comunitari­e vive. Un polmone verde nella realtà italiana, di fede vissuta non solo come opzione privata ma come elemento qualifican­te dell’esistenza».

Lei viene da una terra con più fedi diverse dove, come qui, arrivano molti profughi. C’è una risposta, per i timori che questi fenomeni manifestan­o anche nella realtà italiana?

«Le guerre da cui siamo circondati sono nate per stupidi interventi dell’Occidente: “impiantare la democrazia” è un concetto sciocco, è un togliere la libertà di scegliere la libertà. E questo ha portato a certe situazioni attuali. Le migrazioni vanno comprese, prima di pontificar­e. Nella mia realtà libanese, complessa e conflittua­le, non c’è così tanta paura come in Italia perché l’identità, anche religiosa, viene affermata con forza. In Italia, da un lato c’è chi non vuole accogliere perché teme di sparire, ed è un timore sbagliato. Dall’altro lato c’è chi vuole accogliere negando la propria identità, è altrettant­o sbagliato».

La Bibbia dà un’indicazion­e, su questo argomento?

«Certo. Tutto il cammino di Israele è un esempio, con la sofferenza e la mancata accoglienz­a che gli ebrei si trovano a vivere. Ma è un cammino in cui viene dato spazio, accoglienz­a allo straniero, all’orfano e alla vedova: senza mai negare l’identità di Israele. È una lezione, Dio dice chiarament­e di avere a cuore lo straniero ricordando ad Israele di essere stato straniero, e proibisce di fargli del male: senza mai rinnegare la propria identità ebraica».

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