Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
L’impresa: «Macchinario cambiato da poco Staremo vicini ai feriti»
Quello che rimane, a fine turno, sono tre sensazioni. Il caldo, impossibile da combattere. Il rumore, che a ondate sovrasta tutto. E la polvere, che riempie l’aria.
Tre elementi inconfondibili che caratterizzano la vita all’interno di uno stabilimento come quello delle Acciaierie Venete. Qui, ogni giorno, lavorano circa 400 operai ai quali si aggiungono i dipendenti delle diverse ditte che lavorano in subappalto e ruotano, come tanti piccoli satelliti, attorno a un’area enorme.
Le attività, nelle grandi acciaierie alle porte di Padova, non si fermano mai. Sette giorni su sette, per 24 ore, c’è sempre una squadra impegnata a manovrare quei grandi macchinari che trasformano acciaio fuso in barre e lamine. Tutto, in turni di lavoro di otto ore, alle quali si aggiungono gli straordinari: la prima squadra arriva la mattina alle 6, a dare il cambio a chi la sera prima aveva iniziato alle 22. Il primo saluto che si rivolgono, il più delle volte, è nello spogliatoio, un luogo comune dove ogni operaio ha il suo armadietto: è qui che si cambiano e indossano quelle tute ignifughe e quegli elmetti che costituiscono la barriera, seppur sottile, che li separa dall’inferno dell’acciaio fuso.
Una volta vestiti, ognuno di loro si dirige verso il proprio reparto. Chi verso le gru, chi nelle cabine di manovra chiamate «pulpiti», chi alle macchine che, avanti e indietro, trasportano senza sosta le scorie. Tutto questo, sullo sfondo di quell’immenso capannone diviso in campate, con le pareti che non arrivano fino a terra per permettere all’aria di circolare, e su cui troneggia il forno elettrico, un’enorme pentolone all’interno della quale gli elettrodi tengono l’acciaio in fusione.
È questo il centro dello stabilimento, l’anima che muove l’intero ciclo produttivo.
Da qui, domenica mattina, è partita (come fa ogni ora) la siviera, un cesto sorretto da una gru che, a quasi quindici metri di altezza, trasporta l’acciaio fuso. Chi lavora più vicino a questo inferno infuocato ha poi a disposizione altri strumenti di sicurezza: giacche, guanti, mascherine, cuffie fatte su misura, grazie a calchi cui ognuno degli operai si è sottoposto. Un bozzolo tecnico che, però, non isola del tutto.
Nonostante la tensione dovuta alla vicinanza di macchinari estremamente pericolosi, c’è tempo, tra un’operazione e l’altra, per due chiacchiere. «Tra noi possiamo parlare grazie alle radioline», racconta uno degli addetti alle gru. Il suo accento tradisce le origini campane, e come lui, in tanti vengono da lontano, dal sud Italia o dall’Europa dell’Est. Ma c’è anche tanta gente del posto, come confermano dialetti e cognomi. «Ma non lo dica come mi chiamo, per favore», mettono subito in chiaro, prima ancora di iniziare a raccontare.
«Quando è possibile, quando il rumore del forno si attenua, possiamo scambiare due parole – continuano -. Solite chiacchiere tra colleghi, il litigio con la moglie, la figlia a scuola, le vacanze a casa, dalla famiglia». Chiacchiere che, invece, sono libere in mensa, nella mezz’ora di pausa che spezza in due il turno da otto ore.
E così, per 30 minuti, si lascia da parte il caldo, la polvere, il sudore, e ci si ritrova nella costruzione a due passi dal cancello principale, la stessa dove, all’ora di pranzo, arrivano alla spicciolata anche gli operai dell’altro stabilimento delle Acciaierie Venete, quello in
” Cerchiamo di proteggerci da tutto, ma contro il caldo non c’è nulla da fare
via Silvio Pellico. La pausa passa in fretta, e in un attimo si è di nuovo nel capannone principale. «Dal rumore ci proteggono le cuffie e i tappi – racconta Stefano Lazzarini, delegato Fiom Cgil e rappresentante Rsu dell’azienda per la polvere abbiamo diversi tipi di mascherina, a seconda del ruolo che svolgiamo. Ma il caldo… per il caldo non possiamo fare nulla. Le giacche le dobbiamo tenere, sono per la nostra protezione. E i grandi ventilatori possono fare ben poco, purtroppo».
Fortunatamente, alla fine del turno, ci sono le docce a lavare via afa, polvere, frastuono. Giorno dopo giorno, una routine che si ripete. Almeno fino ad ora. Perché la tragedia di domenica ha sconvolto tutti, compreso chi non era in fabbrica ma ogni turno si arrampica su quella gru che trasporta la siviera, il pentolone di acciaio fuso che si muove lungo il carroponte. «Come faccio ora a tornare lì tra i pentoloni a 1500 gradi? – si chiede, quasi urlando per l’ansia - Ho paura per me, ma anche per i miei colleghi che sono lì sotto. Ho paura di tutto...».