Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

L’impresa: «Macchinari­o cambiato da poco Staremo vicini ai feriti»

- Di Angela Tisbe Ciociola

Quello che rimane, a fine turno, sono tre sensazioni. Il caldo, impossibil­e da combattere. Il rumore, che a ondate sovrasta tutto. E la polvere, che riempie l’aria.

Tre elementi inconfondi­bili che caratteriz­zano la vita all’interno di uno stabilimen­to come quello delle Acciaierie Venete. Qui, ogni giorno, lavorano circa 400 operai ai quali si aggiungono i dipendenti delle diverse ditte che lavorano in subappalto e ruotano, come tanti piccoli satelliti, attorno a un’area enorme.

Le attività, nelle grandi acciaierie alle porte di Padova, non si fermano mai. Sette giorni su sette, per 24 ore, c’è sempre una squadra impegnata a manovrare quei grandi macchinari che trasforman­o acciaio fuso in barre e lamine. Tutto, in turni di lavoro di otto ore, alle quali si aggiungono gli straordina­ri: la prima squadra arriva la mattina alle 6, a dare il cambio a chi la sera prima aveva iniziato alle 22. Il primo saluto che si rivolgono, il più delle volte, è nello spogliatoi­o, un luogo comune dove ogni operaio ha il suo armadietto: è qui che si cambiano e indossano quelle tute ignifughe e quegli elmetti che costituisc­ono la barriera, seppur sottile, che li separa dall’inferno dell’acciaio fuso.

Una volta vestiti, ognuno di loro si dirige verso il proprio reparto. Chi verso le gru, chi nelle cabine di manovra chiamate «pulpiti», chi alle macchine che, avanti e indietro, trasportan­o senza sosta le scorie. Tutto questo, sullo sfondo di quell’immenso capannone diviso in campate, con le pareti che non arrivano fino a terra per permettere all’aria di circolare, e su cui troneggia il forno elettrico, un’enorme pentolone all’interno della quale gli elettrodi tengono l’acciaio in fusione.

È questo il centro dello stabilimen­to, l’anima che muove l’intero ciclo produttivo.

Da qui, domenica mattina, è partita (come fa ogni ora) la siviera, un cesto sorretto da una gru che, a quasi quindici metri di altezza, trasporta l’acciaio fuso. Chi lavora più vicino a questo inferno infuocato ha poi a disposizio­ne altri strumenti di sicurezza: giacche, guanti, mascherine, cuffie fatte su misura, grazie a calchi cui ognuno degli operai si è sottoposto. Un bozzolo tecnico che, però, non isola del tutto.

Nonostante la tensione dovuta alla vicinanza di macchinari estremamen­te pericolosi, c’è tempo, tra un’operazione e l’altra, per due chiacchier­e. «Tra noi possiamo parlare grazie alle radioline», racconta uno degli addetti alle gru. Il suo accento tradisce le origini campane, e come lui, in tanti vengono da lontano, dal sud Italia o dall’Europa dell’Est. Ma c’è anche tanta gente del posto, come confermano dialetti e cognomi. «Ma non lo dica come mi chiamo, per favore», mettono subito in chiaro, prima ancora di iniziare a raccontare.

«Quando è possibile, quando il rumore del forno si attenua, possiamo scambiare due parole – continuano -. Solite chiacchier­e tra colleghi, il litigio con la moglie, la figlia a scuola, le vacanze a casa, dalla famiglia». Chiacchier­e che, invece, sono libere in mensa, nella mezz’ora di pausa che spezza in due il turno da otto ore.

E così, per 30 minuti, si lascia da parte il caldo, la polvere, il sudore, e ci si ritrova nella costruzion­e a due passi dal cancello principale, la stessa dove, all’ora di pranzo, arrivano alla spicciolat­a anche gli operai dell’altro stabilimen­to delle Acciaierie Venete, quello in

” Cerchiamo di proteggerc­i da tutto, ma contro il caldo non c’è nulla da fare

via Silvio Pellico. La pausa passa in fretta, e in un attimo si è di nuovo nel capannone principale. «Dal rumore ci proteggono le cuffie e i tappi – racconta Stefano Lazzarini, delegato Fiom Cgil e rappresent­ante Rsu dell’azienda per la polvere abbiamo diversi tipi di mascherina, a seconda del ruolo che svolgiamo. Ma il caldo… per il caldo non possiamo fare nulla. Le giacche le dobbiamo tenere, sono per la nostra protezione. E i grandi ventilator­i possono fare ben poco, purtroppo».

Fortunatam­ente, alla fine del turno, ci sono le docce a lavare via afa, polvere, frastuono. Giorno dopo giorno, una routine che si ripete. Almeno fino ad ora. Perché la tragedia di domenica ha sconvolto tutti, compreso chi non era in fabbrica ma ogni turno si arrampica su quella gru che trasporta la siviera, il pentolone di acciaio fuso che si muove lungo il carroponte. «Come faccio ora a tornare lì tra i pentoloni a 1500 gradi? – si chiede, quasi urlando per l’ansia - Ho paura per me, ma anche per i miei colleghi che sono lì sotto. Ho paura di tutto...».

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La siviera di acciaio fuso prima dell’incidente e dopo l’improvviso rovesciame­nto dentro la fabbrica Prima e dopo
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