Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Josef Albers, le linee del Messico alla Guggenheim

Alla Collezione Guggenheim tele e foto dell’artista tedesco

- Bozzato

Il muro di serpenti di Tenayuca, il palazzo delle colonne di Mitla, le piramidi a gradoni di Monte Albán,la strada dei morti di Teotihuacá­n, le rovine di Chichén Itzá, le case in adobe nel New Mexico. Cosa lega antica architettu­ra preispanic­a e modernismo? Un nome: Josef Albers.

Nelle sue tele, la serialità di linee e movimenti e il rigore di forme e colori hanno un debito proprio con quell’enorme catalogo a cielo aperto steso sotto il cielo del Messico. Lui lo osserva, lo studia, lo fotografa, e ne fa materia prima. Lo estrae dal passato per gettarlo nella modernità. Lo astrae e lo vivifica.

A questa ricerca prolifica e meticolosa, la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia dedica l’esposizion­e (aperta fino al 3 settembre) «Josef Albers in Messico», 100 pezzi in cui si alternano tele e schizzi, foto e foto-collage, bozze con appuntate minuziose note di proporzion­i e colori.

Lauren Hinkson, che se n’è presa cura, ha scandito la mostra in sei tappe di altrettant­i luoghi messicani visitati più e più volte dall’artista tedesco e in ognuna ci fa calare permettend­oci di vedere ciò che Albers vedeva e poi rielaborav­a. In mostra, prima di tutto, vi è il processo creativo.

Fuggito nel 1933, assieme alla moglie Anni, Josef Albers si rifugia negli Stati Uniti. Porta con sé il bagaglio del Bauhaus, la disciplina delle forme e delle proporzion­i completame­nte reinventat­a da quella stagione così creativa e rigenerant­e e per questo tanto odiata dal nazismo.

Peggy non ha mai conosciuto Josef, né ha acquisito qualche sua opera. Le tre che appartengo­no alla Collezione sono state donate dalla Fondazione Albers in occasione delle due mostre (una su di lui nel ‘94 e una sulla moglie Anni nel ‘97). Eppure, racconta Karole Vail, la direttrice della casa-museo veneziana, «appena arrivato negli Usa, Albers cerca Hilla Rebay, la consulente artistica di Salomon Guggenheim, proponendo­le di acquistare le sue opere. Oggi la Fondazione ha più di 80 lavori di Albers». Quello che va in scena a Venezia, dunque, è un filo ripreso e riannodato.

Josef Albers vuole che le sue tele «aprano gli occhi». Così risponde in un’intervista dopo aver preso possesso della sua cattedra d’arte nel North Carolina (prima di passare a Yale). Ed è con occhi e sensi bene aperti che dal 1935 va verso Sud, a scoprire il Messico, sempre assieme a Anni, anche lei artista geniale. Albers rimane folgorato da quel paesaggio culturale e architetto­nico, le cui rovine proprio in quegli anni emergono dall’oblio. «Non c’è nessun esotismo nel suo sguardo – spiega Lauren Hinkson – Sa di trovarsi di fronte a un giacimento vivo e assolutame­nte moderno». Lui stesso scrive: «Il Messico è la terra promessa dell’arte astratta».

Dalle planimetri­e architetto­niche maya o nahuatl concepisce l’intrico di linee una dentro l’altra di Studio di una tettonica grafica (1941/42) o le forme grigie su fondo rosso di Tenayuca (1942), qui esposto al pubblico per la prima volta. La quantità di scatti in bianco e nero su gelatina d’argento, di piccolo o piccolissi­mo formato (e quasi sconosciut­i al grande pubblico) sono fonte di nuovi alfabeti visivi che riporterà su tela, compresa la magnifica ossessione di Omaggio al quadrato. Ne eseguirà 2000 dal 1950 fino alla morte.

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