Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«Ecco perché il Veneto è megalomane»
«Non fermate il progresso». È l’appello degli uomini dell’impresa veneta alle parole di Patrizia Bartelle (M5s) pubblicate su questo giornale venerdì scorso. La consigliera regionale, a proposito delle grandi opere, aveva parlato di «modello veneto megalomane e da ridimensionare». Ora Bartelle contro-replica.
Ho atteso qualche giorno prima di rispondere alla pioggia di critiche ricevute per la mia intervista al Corriere del Veneto. Ho atteso per provare ad uscire dalla polemica del botta e risposta e argomentare le mie riflessioni in modo più meditato. Ringrazio innanzitutto per l’ospitalità: è sempre più raro che le voci dissonanti siano accolte nel coro dei sostenitori dell’economia imperante e della politica vincente, merito quindi al Corriere del Veneto. Rispondo innanzitutto a Marcello Cestaro (Unicomm): accusarmi di non conoscere la realtà veneta è semplicemente offensivo per chi, come me, da consigliere regionale ha percorso migliaia di chilometri per incontrare decine di comitati civici, nelle province della Pedemontana, per ascoltare centinaia di cittadini critici verso quella grande opera. Sono cittadini veneti, pagano le tasse e soprattutto esprimono opinioni legittime tanto quanto quelle espresse da un industriale. A proposito di realtà veneta, invito Cestaro sulla mia auto per un viaggio da Melara a Porto tolle; cioè i due Comuni estremi del Polesine. Si tratta di 120 km e rispettando i limiti ci metteremo circa due ore, senza poter passare da Venezia altrimenti le ore diventano quattro. Capisco che i Polesani siano poche decine di migliaia, che le nostre industrie sono poca cosa, che Vicenza o Treviso pesino molto di più, ma in Polesine nessuno ha mai chiesto una superstrada Transpadana che colleghi Mantova (e quindi la Lombardia) alla Romea, forse perché i polesani non sono megalomani. O forse vi ho dato un’idea per un altra grande opera futura. Riguardo poi a Francesco Peghin di Fondazione Nord Est, riproporre oggi come lui il «modello veneto» è di una banalità assoluta. Se il modello veneto è quella sfilza di capannoni vuoti, con le scritte vendesi allora ha ragione Peghin. Se invece il modello veneto è migliaia di chilometri quadrati di territorio inurbato, cementificato ed asfaltato, con costi pesantissimi in termini di ripristino ambientale, allora ho ragione io e il modello veneto sarà studiato sui libri di storia come modello negativo da rigettare. Rispondo infine a Bitonci; vedo che l’ex sindaco di Padova cita Keynes, leggiucchiato in fretta, ma in realtà pensa a Ricardo. Del resto, da un leghista ruspante possiamo ben aspettarci una visione, per così dire, «fisiocratica». Va chiarito che non tutti gli investimenti e tutti i consumi sono positivi di per sé; sarebbe come dire che l’investimento di Punta Perotti a Bari sia stato comunque un affare per la collettività, o che consumare denaro nei giochi d’azzardo non comporti altissimi costi personali e sociali, ad esempio per guarire le ludopatie, posto che si riesca a farlo. Varoufakis ha di recente chiarito il punto: la ricchezza, ogni ricchezza, è prodotta collettivamente, e quindi deve sottostare alle regole democratiche che mirano a costruire la giustizia sociale, e alla rigorosa tutela dei beni comuni. L’acqua (cito i casi della Miteni o delle grandi navi in Laguna), l’aria (Marghera o la Centrale di Porto tolle), il suolo (utilizzo sconsiderati pesticidi in agricoltura) e il territorio in generale (la Tav e le Grandi opere) sono beni di tutti e come tali vanno tutelati, soprattutto se a sfregiarli o ad inquinarli sono opere industriali pagate con le nostre tasse oppure sono «intraprese» grazie alla detassazione dello Stato.
* Consigliere regionale M5S