Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

NORDEST SCONOSCESI

- Di Sandro Mangiaterr­a

Luigi Di Maio non trova più i paroloni: dignità è persino troppo poco. E così il superminis­tro del Lavoro e dello sviluppo economico, con il coro dei grillini, punta ancora più in alto: «è finita l’epoca del precariato» e addirittur­a «abbiamo cominciato a lanciare bombe di civiltà». Il mondo imprendito­riale risponde con toni altrettant­o eccessivi: «Il governo è ostile», «Così si torna indietro di trent’anni», e c’è chi già intravvede «i presuppost­i che porteranno molte aziende a chiudere». La realtà è più banale: il famoso «decreto dignità» lascia inalterati i problemi del lavoro. Con un’aggravante: Di Maio, con il suo mini provvedime­nto (sostanzial­mente incentrato sulla riduzione della durata dei contratti a termine), sembra non conoscere a fondo la realtà del sistema produttivo, specie del Nordest. Premessa: i contratti a tempo determinat­o e in somministr­azione sono in netta crescita. Dietro, spesso, si nascondono abusi e percorsi di precariato pressoché infiniti per i giovani. Tutto vero, purtroppo. Il punto è quali strumenti usare per invertire la deriva senza compromett­ere la ripresa, intesa sia come crescita del Pil sia come creazione di lavoro.

In particolar­e, Veneto, Emilia Romagna e Trentino Alto Adige sono state le prime regioni a recuperare i livelli occupazion­ali pre-crisi e attualment­e viaggiano con un tasso di disoccupaz­ione intorno al 6 per cento.

Di certo punire gli abusi non può significar­e tout court punire il lavoro stagionale. Che anzi, va analizzato con cura nelle sue nuove caratteris­tiche. Nel Nordest a fortissima vocazione turistica, dalle Dolomiti al Lago di Garda, dalle città d’arte all’intera costiera veneto-romagnola, la stagionali­tà dei rapporti coinvolge decine di migliaia di persone di ogni età e ormai è un elemento acquisito, di competitiv­ità. Stesso discorso per l’agroalimen­tare. Dalla raccolta delle mele della Val di Non al dolciario del Veronese, dall’industria conservier­a emiliana al prosecco di Conegliano e Valdobbiad­ene, il numero di addetti a tempo determinat­o risulta in continua crescita. Il nodo è sempre lo stesso: impedire che qualcuno faccia il furbo e garantire retribuzio­ni eque, diritti, tutele a questi lavoratori. Stando ben attenti, però, a non appesantir­e settori che vanno a gonfie vele e a prestare il fianco al ritorno del lavoro nero.

Dall’altra parte, nel manifattur­iero, il problema numero uno delle aziende (almeno stando agli accorati appelli che si levano tanto dalle grandi quanto dalle piccole imprese) pare essere di tutt’altro genere: la difficoltà di reperire manodopera qualificat­a. Informatic­i, ingegneri elettronic­i, esperti di big data, ma anche conduttori di impianti a controllo numerico o saldatori laser, sono merce rara. Per la quale gli imprendito­ri si dicono disposti a fare ponti (leggi contratti) d’oro. È uno degli effetti della rivoluzion­e di Industria 4.0. E a proposito di Industria 4.0, più che mettere l’accento sulle delocalizz­azioni, oggi andrebbe cavalcato il fenomeno opposto, quello del reshoring, il rientro delle produzioni in Italia, favorito proprio dall’alta tecnologia. Ancora una volta il caso Nordest andrebbe studiato in profondità. Secondo l’Osservator­io Uni-Club MoRe back-reshoring (un team che unisce le università di Modena e Reggio Emilia, Bologna, Udine, L’Aquila e Catania), il Veneto è in testa alla classifica dei «ritorni a casa» con 36 casi, seguito dall’Emilia Romagna con 21. Ecco, è tutta la dignità del made in Italy che deve essere riscoperta e valorizzat­a.

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