Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Allarme camici bianchi «Aggrediti sei sui dieci»

- Di Michela Nicolussi Moro

Il 65% dei medici veneti ha subìto aggression­i, verbali e fisiche, da parte di pazienti o familiari. A rischio i Pronto Soccorso.

Sei su dieci quotidiana­mente vittime di aggression­i da parte di pazienti e familiari. «Che inferno, difficile lavorare così»

Èil 30 dicembre 2017 quando, all’ospedale De Gironcoli di Conegliano, una guardia medica viene aggredita e colpita da una coppia che cerca di sfondare la porta dell’ambulatori­o. Due settimane dopo la dottoressa, trentenne, si dimette perché lo choc subìto non le consente più di lavorare con serenità e nemmeno di dormire. La stessa paura provata il 19 giugno scorso dai colleghi del Pronto Soccorso di Padova, minacciati con violenza da un cinese in crisi psicotica, che scarica la sua rabbia scardinand­o la porta dell’area rossa e poi picchiando i due poliziotti riusciti a bloccarlo. E che dire del camice bianco preso a pugni, lo scorso febbraio all’ospedale di Legnago, da un paziente che non voleva affrontare la semplice misurazion­e della pressione prima di essere dimesso? Succede tutti i giorni ai veri medici in prima linea, che non sono i perfetti «E.R.» senza un capello fuori posto alla George Clooney ma dottori quotidiana­mente in trincea, a combattere la malattia e pure l’esasperazi­one e la maleducazi­one crescente di pazienti e familiari, che sempre più spesso scaricano ansia e frustrazio­ni aggredendo, insultando, minacciand­o e picchiando le uniche persone in grado di salvarci la vita.

L’escalation

L’Anaao Assomed, sigla degli ospedalier­i, ha per la prima volta inquadrato il fenomeno, distribuen­do un questionar­io a tutti i colleghi in corsia, che nel Veneto sono 9150 (compresi i 600 universita­ri). Ne è emerso che il 65% è stato vittima, almeno una volta, di aggression­i: di questi, il 66% ha subìto attacchi verbali e il 33% fisici, finiti con una prognosi compresa fra 3 e 100 giorni. Ma la percentual­e del 65% sale all’82% per i dottori del Pronto Soccorso, il reparto più a rischio insieme a Psichiatri­a, Sert, Suem 118, Medicina interna, Chirurgia generale, Ginecologi­a, Pediatria, Pneumologi­a, Malattie infettive, Anestesia e Rianimazio­ne. Eppure meno del 10% dei medici si rivolge alla legge: le denunce sono 500/600 all’anno, contro le 1300 presentate dai malati per presunti errori medici. «Denunciare il paziente è contrario all’etica profession­ale — spiega Pasquale Santoriell­o, chirurgo ortopedico e segretario Anaao all’Usl 2 Marca Trevigiana — perché il rapporto è impari. Faccio questo mestiere da 25 anni e non ho mai vissuto una situazione del genere: siamo in mezzo al fronte. Attaccati a destra dall’utenza e a sinistra dalle nostre aziende, che ci dovrebbero difendere e invece sono insofferen­ti. Siamo considerat­i una categoria privilegia­ta, che guadagna un sacco di soldi: la realtà è un’altra. Siamo in crisi. Negli ospedali c’è un clima da caserma, il primario è sotto ricatto del direttore generale perchè ha un contratto di cinque anni, che ora la Regione sta riducendo a tre. E allora per essere riconferma­ti i primari vessano e mortifican­o i collaborat­ori, li costringon­o a stimbrare il cartellino al termine dell’orario indicato per legge e a restare al lavoro. Così si coprono fino a 14 ore al giorno, per sopperire al sottorgani­co e in violazione alla normativa europea che ne impone 40 settimanal­i, comprese le chiamate di reperibili­tà. Un fenomeno molto frequente ma non documentab­ile — aggiunge Santoriell­o — perchè nessuno ammette di aver stimbrato per paura di ritorsioni. Puoi essere demansiona­to: per esempio un chirurgo rischia di non operare più o di farlo la sera invece della mattina, ad altri colleghi tolgono le ferie all’ultimo momento».

Le vessazioni

Due mesi fa a una dottoressa è stato negato il permesso per malattia del figlio, colpito da bronchioli­te. Il pediatra ha prescritto tre giorni di prognosi, ma lei è stata messa in turno, altrimenti rischiava il declassame­nto degli scatti di anzianità. Un ex primario di Anestesia di un ospedale trevigiano dalla sera alla mattina ha perso il Dipartimen­to perchè ha ricevuto l’ordine di attivare il parto in analgesia e ha risposto che sarebbero serviti altri due anestesist­i. Il dg ha detto no, usa le risorse che hai, e alle perplessit­à del primario ha risposto togliendog­li la direzione del reparto. «In un’atmosfera simile il rapporto medico-paziente è messo a dura prova — avverte Santoriell­o — il superlavor­o ci impedisce di dedicare alla gente il giusto tempo. E le disposizio­ni interne non aiutano: il nuovo piano di lavoro impone una gastroscop­ia ogni 20 minuti, quando le linee guida ne prevedono almeno 30; un ginecologo di Treviso è rimasto al lavoro 20 giorni di seguito, senza riposi nemmeno di domenica; gli anestesist­i per la difficoltà estiva di essere sostituiti stanno coprendo in tanti ospedali 60 ore a settimana. Uno di loro, ancora in sala operatoria alle dieci di sera, ha ammesso: io, se fossi un paziente, avrei difficoltà a farmi operare da noi. Condizioni che aumentano le possibilit­à di errore, ne va della sicurezza del paziente e del medico, gli utenti si arrabbiano e la tensione cresce, impedendoc­i di lavorare al meglio».

La rabbia dei pazienti

I motivi del malessere dei malati sono dunque: la visita sbrigativa per insufficie­nza di operatori, percepita come prestazion­e affrettata e grave fonte di stress per il medico; le attese, considerat­e sempre eccessive da chi ha male e pretende di essere visitato subito; la diffidenza. Oggi i pazienti vogliono capire e avere voce in capitolo sulle cure, mettendo in discussion­e il dottore. «In passato erano passivi — conferma Giovanni Leoni, presidente della Cimo Veneto e chirurgo generale a Mestre — ora sono collaborat­ivi, ma anche nel senso meno positivo del termine. Oggi ci sono il professor Google e i Social, che hanno introdotto una nuova mentalità, spesso difficile da scardinare: se un concetto viene ripetuto all’infinito da un certo numero di persone, è la verità. E ciò crea aspettativ­e non realistich­e, situazioni contingent­i che per ignoranza o malafede usano la salute per scopi estranei alla sanità, magari politici. Generano scelte di pancia e conflittua­lità». Leoni a inizio carriera ha lavorato in un Pronto soccorso: «Nessuno può capire cosa significhi fare il medico se non ha mai prestato servizio nell’urgenza-emergenza. L’attesa dev’essere commisurat­a alla necessità, se uno ha male e aspetta troppo si agita. E quando la gente si esaspera mette le mani addosso all’operatore, che di conseguenz­a sotto pressio-

ne fa male il suo mestiere. Ricordo una mattina lo scontro tra una famigliola e un tossicodip­endente, che al culmine della rabbia si è strappato la flebo dal braccio insanguina­ndo il reparto e mettendolo a ferro e a fuoco, finchè è stato immobilizz­ato dalla polizia. Ma ricordo anche i Natali e i Capodanni festeggiat­i al Pronto Soccorso con i panettoni portati dalla polizia stradale — rievoca Leoni — come noi sempre in prima linea. Il rapporto diretto con chi soffre è alla base della medicina ma non è facile sviluppare empatia col paziente e nello stesso tempo bloccare l’emotività, per restare lucidi e profession­ali. Dobbiamo mantenere i nervi saldi, ma se non siamo messi nelle migliori condizioni di lavoro, per carenze organizzat­ive e di personale, diventa difficile».

Le pretese

E’ d’accordo Massimilia­no Zaramella, chirurgo al San Bortolo di Vicenza e presidente di Obiettivo Ippocrate, associazio­ne nata proprio per recuperare l’alleanza terapeutic­a medico-paziente: «Il fenomeno delle aggression­i è in crescita da 15 anni, le carenze organizzat­ive hanno minato la fiducia tra dottore, ammalato e familiari. Minato da un punto di vista culturale, si è perso il concetto chiave che il diritto sancito dalla legge è alle migliori cure, non alla salute. E invece è stato fatto passare un messaggio miracolist­ico, di onnipotenz­a, che raffigura il camice bianco come un guaritore, uno stregone quasi. E quindi l’idea della morte o della terapia che non funziona è respinto a priori. E poi è cambiato il principio di salute: una volta significav­a assenza di malattia, adesso allarga il ruolo del medico a una componente sociale, familiare e ambientale. E’ un compito più complesso — incalza Zaramella — non basta più trattare la malattia, spesso la componente umana e sociale di un paziente, magari da solo e non in grado di tornare a casa benché non più nella fase acuta, è prioritari­a. E allora per recuperare l’alleanza terapeutic­a bisogna trovare lo spazio per parlare. Se invece sale l’atmosfera di diffidenza e conflittua­lità, le storie a lieto fine saranno sempre meno».

Le tutele

Ma chi difende i medici? I sindacati hanno chiesto vigilantes, telecamere, allarmi, porte blindate e l’assessore alla Sanità, Luca Coletto, ha promesso una delibera che vada in questa direzione. Intanto la giunta Zaia ne ha approvata un’altra che tali misure di sicurezza prevede già per le guardie mediche, più a rischio perchè all’opera di notte, da sole e in ambulatori isolati. L’Usl 4 di San Donà ha dotato i dottori di fischietti, mentre all’Usl 1 di Belluno è partito un corso di autodifesa.

” L’ortopedico Siamo attaccati a destra dall’utenza e a sinistra dalle aziende, che ci sfruttano

” Il chirurgo Motivi della rabbia visite sbrigative, attese e diffidenza nei confronti delle cure

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