Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

METAFORA DI UN PAESE CHE NON C’È

- Di Stefano Allievi

Il crollo del ponte Morandi non è una cosa che riguarda solo Genova. C’entra anche con noi, con tutti noi: noi come vizi profondi di una cultura e di un sistema paese che non cambia, a dispetto dei cambiament­i politici e di governo. E c’entra, sì, anche con il Veneto. Tutto si tiene, tutto si lega, ed è giusto così. C’entra il Veneto perché c’è anche un veneto tra le vittime del crollo. C’entra il Veneto perché Atlantia, la società che ha in concession­e il tratto autostrada­le della A10 coinvolto dal crollo, vede come primo azionista la holding della famiglia Benetton. Sarà la magistratu­ra a dire se ci sono delle responsabi­lità e quali, sarà la politica a decidere se rivedere il sistema delle concession­i a privati e come. Intanto, in un solo giorno, la società ha perso oltre un miliardo in borsa, e dopo le dichiarazi­oni del governo altri quattro, in totale un quarto del suo valore: mentre da qualche parte dovrà cominciare una riflession­e che non assomigli solo al consueto italico scaricabar­ile. C’entra il Veneto perché le istituzion­i e il volontaria­to sono pronti a fare la loro parte per aiutare Genova, e certamente la generosità si manifester­à ancora, come in passato, in molte forme: e va raccontata anche la parte bella, partecipe e solidale, della realtà. C’entra il Veneto perché ci sono veneti che vivono in quella regione, altri che sono lì per turismo in questo momento, e molti di più attraversa­vano spesso quel ponte o lo facevano attraversa­re alle loro merci.

C’entra il Veneto perché ci accorgerem­o presto delle ripercussi­oni – anche concretame­nte economiche – che il disastro avrà per il sistema industrial­e del paese, in tante sue articolazi­oni che ora nemmeno ci immaginiam­o: la città spezzata in due è il simbolo di una direttrice di collegamen­ti molto più ampia, neanche solo nazionale, che ora è spezzata in due. Ma, più profondame­nte, c’entra il Veneto, e c’entriamo tutti noi, classi dirigenti e comuni cittadini, per come abbiamo passato le 48 ore successive al disastro a discettare sulle colpe degli uni o degli altri, schierando­ci aprioristi­camente pro o contro questo o quel partito, accusandol­o di tutte le nefandezze, fingendo una pietà che non sentivamo, mimando una com-mozione (che vuol dire muoversi e sentire insieme agli altri) che non ci faceva muovere affatto. Cercando nel disastro la scusa per regolare i conti con qualcuno, di fondo fregandoce­ne bellamente di quanto è accaduto: uno sciacallag­gio informativ­o, politico, morale, ben peggiore di quello che rischia sempre di avvenire sul posto, quando si consumano queste tragedie. Lo specchio di un paese senza legami, senza fondamenti, senza obiettivi comuni. E’ così che il crollo del ponte Morandi diventa una metafora potente, purtroppo negativa: la metafora di un paese che non c’è. O forse che non c’è più, o che sembra non volere più esserci. Un paese di nemici, e alla ricerca di nemici. Che preferisce scavare altre trincee, e barricate, anziché costruire ponti – appunto. Un paese incapace di fare, nel piccolo e nel grande, nell’ordinaria manutenzio­ne del presente e nelle scelte strategich­e sul futuro: a cui la storia non insegna niente, che ripete ogni volta gli stessi errori. Prendiamol­o come la metafora di questo paese, allora. Teniamo lo sguardo ben fisso su di esso. E proviamo a pensare che i pilastri che crollano sono i capisaldi della convivenza civile. Le strutture che non tengono sono le regole di funzioname­nto della società. Le fondamenta che non reggono sono i fondamenta­li della tenuta del patto sociale e tra generazion­i. Il cemento che si sbriciola, infine, è la solidità dei riferiment­i morali in cui ci riconoscia­mo. Possiamo consolarci: dopo tutto, i morti per effetto diretto di queste cause sono ancora relativame­nte pochi – anche se sempre troppi, e inaccettab­ili. Per giunta stanno quasi tutti altrove, e quindi qui, siamo onesti, fanno meno notizia. Ma i danni indiretti di tutto ciò sono incalcolab­ili, e le difficoltà si protrarran­no a lungo nel tempo. E non ne abbiamo ancora veramente contezza.

Guardiamol­a in faccia, questa metafora: questo specchio. E interroghi­amoci con onestà: per capire se l’immagine che ci restituisc­e ci assomiglia. E se questa immagine ci piace.

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