Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Se dal Due Palazzi il boss dava ordini ai suoi famigliari
Arrivano da Padova le prove che inchiodano Carmel a Rober t a Put r ino, 49enne di Catanzaro, accusata di associazione a delinquere di stampo mafioso per aver di fatto sostituito nella gestione degli affari di famiglia il marito Salvatore Giglio, boss della ‘ndrangheta detenuto proprio al Due Palazzi, da dove ha continuato a impartire ordini alla famiglia.
Sulla scorta delle intercettazioni fatte in carcere, nei giorni scorsi, la Cassazione ha rigettato il ricorso fatto dalla donna contro l’ordinanza di custodia cautelare emessa dal tribunale di Catanzaro alla fine dell’anno scorso. Putrino era stata arrestata lo scorso dicembre al termine di un’indagine della distrettuale antimafia di Catanzaro che la vede indagata per associazione mafiosa e falso. La donna, stando alla sentenza della Cassazione, avrebbe organizzato un attentato incendiario nei confronti della vice sindaca del paese d’origine, in provincia di Crotone, colpevole di non aver agevolato l’iter per l’occupazione del chiosco sulla spiaggia di Strongoli Marina e di quello per la rivendita fiori al cimitero. L’attentato sarebbe stato eseguito dal figlio con la supervisione della mamma, la quale avrebbe agito dopo essere stata incaricata di prendere le redini del business di famiglia dal marito Salvatore Giglio, che dal carcere di Padova, sarebbe riuscito comunque a gestire la cosca calabrese. Lo dicono gli ermellini. «Il tribunale calabrese ha chiarito come i gravi indizi della partecipazione alla Putrino alla societas sceleris si fondino sulle copiose emergenze delle intercettazioni e dei colloqui presso il carcere di Padova tra Giuseppe Farao e Salvatore Giglio, (avvenute tra marzo e dicembre del 2014)» oltre che per intercettazioni ambientali nell’auto di un conoscente e di un vigile urbano. Non è la prima volta che Padova viene interessata dalle vicende di Salvatore Giglio. Con un’ordinanza emessa lo scorso gennaio infatti il gip di Catanzaro aveva portato in carcere 169 persone accusate di essere collegate alla cosca Giglio, tutti impegnati a gestire gli affari del boss incarcerato, il quale riusciva comunque dal carcere a far girare gli affari anche in Veneto, e soprattutto a Padova, dove voleva infiltrarsi con gli affari legati alla produzione e commercializzazione del pane. «Con farina e acqua si fanno i soldi», diceva Giglio in carcere alla moglie, mentre non sapeva di essere intercettato. E la moglie, guardando il figlio (presente anche lui al colloquio) dice: «C’è assai guadagno, capì». E quando gli chiedono se devono farlo a Strongoli (Crotone), il boss risponde secco: «Qua!», intendendo nelle zone del Padovano.
Per l’accusa, con queste affermazioni, Giglio «fa capire che a Padova devono iniziare e inserirsi nel mercato della panificazione, che in Calabria è già controllato, di fatto, dalla mafia e suggerisce “di interessarsi e vedere se riesce a trovare qualche forno che si vende”». L’intercettazione risale al 2014, un periodo in cui il carcere padovano è sotto stretta sorveglianza, visto che proprio in quel periodo era scoppiato lo scandalo dei telefonini e della droga portata in carcere da alcuni agenti corrotti della polizia penitenziaria. Giglio è attento, si guarda attorno, cerca di incontrare i famigliari in posti che non siano la sala colloqui per evitare le intercettazioni. Riesci a farsi concedere più colloqui di quanti siano previsti dal regolamento, riesce a incontrare i suoi famigliari perfino nella palestra del penitenziario, ma alla fine viene incastrato. E con lui la moglie.
Il caso del pane Salvatore Giglio voleva mettere le mani sul business del pane in Veneto