Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Solo italiani tra i banchi mi chiedo se è un vantaggio
La maestra fa l’appello. L’ascolto distrattamente: molti genitori li conosco già, sono concentrata su quelli che vedo per la prima volta seduti nei banchi che oggi occuperanno i nostri figli. Quando la maestra arriva in fondo all’elenco faccio un salto sulla sedia. Oggi la terza dei miei figli comincia la prima elementare in una scuola della prima periferia e in classe non avrà nemmeno un compagno straniero. In dieci anni che frequento le scuole venete di ogni ordine e grado, dall’asilo nido alle medie, non mi era mai successo. Mi giro verso alcuni genitori e, cercando di non farmi beccare dalle maestre, provo a buttare lì l’informazione. «Questo non ci piace, mancherà il confronto», dicono. Qualcun altro lo vedo soddisfatto: magari pensa che così non si perderà tempo a insegnare l’italiano e chissà, forse si tornerà a fare il presepe per Natale.torno con la mente ai cinque anni di elementari del primo figlio. Rivedo la fatica di stabilire un contatto con i genitori stranieri, rivedo la mamma di Z. che mi porta il couscous fuori da scuola, il pensierino scritto per le maestre alla fine della quinta dal compagno del Bangladesh in un italiano perfetto, l’accettazione del fatto che a intervenire nella vituperata «chat delle mamme» per una bimba macedone fosse sempre e solo il papà, l’unico col telefono.
Ogni anno quando inizia la scuola i giornali abbondano di statistiche su classi nelle quali gli stranieri sono il 50, 60,70 per cento e si fa un gran parlare di quanto questo possa cambiare l’impostazione del lavoro. Qui siamo al 100 per cento italiani ma mi chiedo se davvero andremo più veloci. E se invece di imparare a leggere dopo Natale, mia figlia già a ottobre
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Lo straniero è la variabile che sfugge a noi adulti, ci obbliga a fare qualche passo in più
mi ruberà i libri. Provo a concentrarmi sul confronto: i miei figli sono cresciuti in scuole pubbliche frequentando classi con tanti bambini di tutte le etnie, abituati ai diversi Paesi dai quali provenivano i compagni. E noi genitori, meno elastici e meno aperti, siamo stati «costretti» da subito ad aprirci al microcosmo della classe, a preparare panini senza prosciutto alle feste, a rispettare il Ramadan di mamme e papà musulmani, a comprendere se qualcuno, dignitosamente, dà un po’ per volta la quota della gita scolastica invece che in un’unica rata o al compleanno viene senza regalo.
In un mondo in cui noi genitori vogliamo controllare tutto e scegliere tutto, lo straniero in classe è la variabile che sfugge e che costringe tutti a fare un passo in più. E un conto è fare strada in più a 6 anni. Un conto è farne in più a 11, a 14 o dopo. Quando si ha solo fretta e tempo sembra non ce ne sia più.
Lettera firmata