Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Io, Maniero e i miliardi della Mala: sono cambiato
Manca: con la Mala guadagnavo 700 milioni al mese
«Il tesoro di Maniero? Circa 250 miliardi», spiega l’ex colonnello della Mala del Brenta, Giampaolo Manca.. «Sono cambiato», assicura il veneziano, nato ricco e divenuto un bandito.
Oggi Giampaolo Manca ha i capelli grigi e il volto segnato di chi ha trascorso in carcere oltre la metà dei suoi 63 anni. È stato uno dei colonnelli della Mala del Brenta e dal novembre scorso è (quasi) libero dopo la condanna per l’omicidio dei fratelli Rizzi, nel 1990. Di lui si torna a parlare perché stasera (ore 19.30, in Campo San Giovanni e Paolo a Venezia ) presenterà la sua autobiografia.
Nel libro racconta la sua vita, dall’infanzia all’amicizia con Felice Maniero...
«La mia famiglia era agiata: non soltanto mio padre era ricco, ma mio fratello aveva una fabbrica a Murano e gli zii diversi negozi a Venezia. Eppure, se penso alla mia infanzia, provo un dolore profondo: nessuno mi accettava. Papà, un ex finanziere, era molto severo, e picchiava me e mio fratello. Non volevo averci più nulla a che fare. Mi dicevo: se i ricchi sono questi, allora vado con i poveri. Ed è ciò che feci».
Da giovane conobbe una leggenda della malavita veneziana: Silvano Maistrello, detto il Kociss, protagonista di colpi eclatanti...
«Quando penso a Silvano i cuore mi va a mille, l’ho amato profondamente...»
(A questo punto la voce gli trema. Poi, gli occhi si gonfiano di lacrime)
«Aveva sette anni più di me e un carisma incredibile: tutti noi ragazzini ne eravamo affascinati. A 18 anni io e quella che sarebbe diventata mia moglie, andammo a vivere a casa sua. Insieme abbiamo vissuto grandi avventure...».
Il mito vuole che Kociss regalasse ai poveri parte del bottino.
«È vero. Per le persone dei quartieri popolari di Venezia, lui c’era sempre. Rubavamo solo ai ricchi, ai poveri portavamo la spesa. Ricordo che riempivamo interi carrelli di cose da mangiare che poi distribuivamo ai detenuti di Santa Maria Maggiore. Fu un bel periodo, anche se al suo fianco diventai un criminale “di professione”».
Ricorda il primo reato? «Da ragazzini rubavamo le barche, io mio fratello. Una volta prelevammo un vaporetto: avevo 12 anni e mio padre ci diede un sacco di botte. Poi ci fu una festa in maschera e arrivò tutto il jet-set, compresi Aristotele Onassis e Jackie Kennedy che avevano noleggiato il panfilo “Christina”. Convinsi mio fratello a rubarlo, ma capimmo subito che non ci saremmo mai riusciti. Però c’era un Riva meraviglioso, che Onassis usava per scendere dal panfilo: ci buttammo in acqua e lo portammo via».
Come andò a finire?
«Girammo tutta la notte per Venezia, per poi lasciarlo da qualche parte».
L’incontro con Maniero? «Noi veneziani frequentavamo i locali della Riviera del Brenta, è lì che conoscemmo Felice e i ragazzi di Campolongo. All’epoca ero già finito in carcere e vennero a sapere che non avevo fatto i nomi dei miei complici: questa cosa piacque molto e mi accolsero tra loro. Così, andavamo a ballare e a fine serata, invece di rincasare, svaligiavamo le ville venete. La Mala del Brenta nacque così. Solo in seguito arrivarono le rapine e, intorno a noi, sempre più gente».
Arrivò anche la droga...
«Il male estremo. L’eroina ci portò miliardi, e perdemmo la testa. Ciascuno di noi guadagnava 600-700 milioni di lire al mese. E se in tasca hai tutti quei soldi, ogni cosa perde valore. È il rimorso più grande: il traffico di droga fu qualcosa di infame, che seminò morte e disperazione. Lo facemmo per avidità: volevamo lo yacht, andare a mangiare da Cipriani, a Parigi, in America. Oramai eravamo disposti a tutto per i soldi».
Altri rimorsi?
«Con Felice uccidemmo i fratelli Rizzi e il loro cugino. Quell’episodio ha segnato la mia vita e non lo rifarei, anche se so che sarebbero stati loro ad ammazzarmi. Vorrei “salvare” i ragazzi di oggi, facendo loro capire la malavita è un baratro senza via d’uscita: o uccidi, o vieni ucciso, o vai all’ergastolo».
Chi è, per lei, Maniero? «Felice è un camaleonte: odiava gli spioni ma poi fece tutti i nomi. Oggi lo descrivono come una mente brillante ma in fondo era solo un bandito. Non ho mai avuto la sensazione che fosse il mio capo: le decisioni si prendevano insieme e senza di noi sarebbe rimasto anonimo».
Il famoso «tesoro» di Faccia d’angelo esiste ancora?
«Certo, ne ha restituito solo una parte. La prova è che vendemmo oltre 1.500 chili di eroina. Facendo due conti, Felice si intascò qualcosa come 250 miliardi di lire...».
Lei fu arrestato nel ‘92, cosa le ha insegnato il carcere?
«In cella ho conosciuto Vallanzasca, Mario Tuti, Graziano Mesina... Ma in galera impari solo a odiare, diventi una belva. A salvarmi sono stati i volontari, che mi hanno offerto l’amore di cui avevo bisogno. È grazie a loro se oggi sono tornato un essere umano. Dovevo cambiare, per la moglie e il figlio che mi aspettavano fuori dalla prigione».
Ancora oggi in tanti subiscono il fascino della Mala...
«È un fascino pericolosissimo. Ci sono ragazzi che mi scrivono definendomi il loro idolo e chiedono di incontrarmi. Non hanno capito nulla: non devono diventare come me. Spero che un giorno mi ammirino per ciò che farò da qui in avanti».
Grazie al suo libro? «Anche. Tutti i proventi andranno in beneficenza: voglio contribuire a realizzare una struttura nel Bergamasco per le ragazze madri in difficoltà economiche e, in futuro, dedicarmi a loro. Così,il mio racconto del male servirà a fare del bene».
Silvano «Kociss» Aveva un carisma incredibile. Andai a vivere a casa sua e rubavamo ai ricchi, mentre ai poveri portavamo la spesa
Felice Maniero
Il suo tesoro esiste ancora: non l’ha restituito tutto. Facendo due conti, Felice si intascò qualcosa come 250 miliardi di lire