Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
MANOVRA, URGONO CORRETTIVI
Dopo la bocciatura della manovra di bilancio del governo legastellato da parte della Commissione europea appare materializzarsi il temuto scenario della palla di neve del deficit previsto «deviato» al 2,4 per cento del Prodotto interno lordo che, ingrossata dalla bocciatura della Commissione europea e dai giudizi negativi delle agenzie di rating, scatena sui mercati l’apocalisse della insostenibilità del servizio del debito pubblico e del costo del credito per imprese e famiglie.
L’alternativa alla quale aggrapparsi è che si esca dall’impasse con un passo indietro del solo governo — improbabile perché costringerebbe a scegliere tra spinaci e pomodori nell’insalata del contratto di governo — o della sola Commissione - altrettanto impossibile — o — spes ultima dea — con un qualche forma di compromesso, che consenta di salvare la faccia alle parti in causa rinviando lo scontro a dopo le elezioni europee di maggio 2019.
Se si dovesse ottenere un mezzo via libera da Bruxelles e per suo tramite si evitasse la catastrofe della fuga dei finanziatori del nostro debito si potrebbe respirare. Ma solo per un minuto, perché si parerebbero subito davanti il macigno delle correzioni da apportare alla manovra per renderla davvero efficace ai fini dell’obiettivo dichiarato della crescita — cosa che oggi non è — e quello del diverso rapporto da costruire tra l’italia e il futuro dell’unione Europea.
Sul primo punto è del tutto evidente che la qualità della manovra così come sta entrando in parlamento non massimizza l’«utilità» del maggior disavanzo eventualmente concordato. Nulla può far pensare che dopo un anno di rapporto deficit/pil al 2.4% possa aumentare stabilmente il potenziale produttivo italiano e quindi reddito ed occupazione nazionali. E non solo perché lo scenario internazionale si sta facendo meno roseo. Per evitare che la manovra si traduca solo in una effimera distribuzione di spesa pubblica finanziata a debito, occorre modificare radicalmente e per un lungo periodo la composizione della spesa prevista, spostandola dal sostegno ai consumi (tramite la distribuzione del reddito di cittadinanza e di una applicazione di quota 100 alle pensioni poco attenta all’allungarsi della vita media) al sostegno degli investimenti e delle esportazioni. Occorre poi che gli investimenti pubblici si dirigano risolutamente verso quelle infrastrutture che sole possono aumentare davvero la produttività del sistema economico italiano: sì anche Terzo valico, Gronda di Genova, Tav, Brennero, Tap, Passante di Bologna, porti di Genova, Venezia e Trieste, cioè opere da sottrarre alla burla della analisi costi benefici di comodo dietro la quale si nasconde l’irresponsabilità dei decisori istituzionalmente competenti. L’accordo Veneto-trentino sulla Valdastico nord di ieri è un esempio ex contrario, del quale va dato atto ai governatori Zaia e Fugatti, di come sia possibile tagliare anche i nodi più incancreniti. E non basta: investimenti in manutenzioni di scuole, strade, ospedali etc. andrebbero poi eletti ad opere da affrontare con «lavoro di cittadinanza» nel quale trasformare almeno parte del reddito di cittadinanza. Il «macigno» dell’italia nella Unione Europea sembra al momento più remoto, meno cruciale. Non lo è. E speriamo lo si capisca mano a mano che si accenderà il dibattito in vista delle elezioni europee. Oggi abbiamo un gran bisogno dell’unione Europea non solo perché ci ha assicurato 70 anni di pace e, speriamo, continuerà a farlo, ma perché in un mondo sempre più destabilizzato dalla competizione globale tra USA e Cina, l’italia può pensare di difendere il benessere degli italiani solo «dentro» una Unione Europea ben più unita del condominio nel quale la vorrebbero rinchiudere i sovranisti.