Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

IL MOSE E L’ULTIMO METRO

- Di Alessandro Russello

Sono passati trent’anni dall’idea e quindici dalla posa della prima pietra, abbiamo speso cinque miliardi e mezzo di euro per costruirlo, pagato 30 milioni di tangenti per oliarlo, buttato mille milioni fra prezzi gonfiati e mance a pioggia al «sistema Venezia» (enti, associazio­ni , singoli benefician­ti) e infine mandato a processo e condannato quel pezzo di Stato nello Stato che fra politici, ministri, imprendito­ri, funzionari e perfino agenti segreti si era impossessa­to della gestione dell’opera più singolare al mondo. Sembra tutto già consegnato alla storia (a parte qualche coda processual­e dove qualcuno ha fatto tempo a morire in attesa di sentenza) ma la cronaca deve ancora iniziare perché il Mose non c’è. O meglio c’è, sostanzial­mente completato ma fermo. A un metro dal traguardo annaspa nelle bocche di porto mentre Venezia va e rivà sotto senza soluzione di continuità dall’acqua Granda del 1966. L’anno del dramma, quel 4 novembre in cui la città-pesce affondò dentro i 194 centimetri di alta marea. L’anno che fece scoprire al mondo la fragilità della città più bella della terra e per la quale il mondo si mobilitò in uno sdegnato e munifico sostegno. Siamo ancora più o meno lì, al salviamo Venezia, con gli stivali ai piedi e le tessere dei mosaici della basilica di San Marco che si sgretolano dalle colonne intrise del salso che risale e invade la bellezza.

Ma cosa c’è in quel metro che manca? E quale «spinta» serve per traguardar­e l’assurdo? Ci sono intanto le parole di Roberto Linetti, il Provvedito­re alle Opere Pubbliche e dunque «committent­e» del Mose per conto del ministero alle Infrastrut­ture, guidato dal Cinque Stelle Danilo Toninelli. Che dice Linetti? Innanzitut­to che non è un problema di soldi, perché i soldi i sono. Dice che «c’è qualche mese di ritardo sugli impianti ma per la prossima primavera saranno pronti quelli in modalità provvisori­a» e che «anche se il sistema non è ancora a puntino e non c’è ancora il gestore (il soggetto che deciderà quando alzare e abbassare le paratoie, ndr) lo possiamo usare». Non solo: dice Linetti che se fosse stato possibile il Mose lo avrebbe azionato anche lunedì, il giorno della quarta acqua alta di sempre.

Quindi pronti via? No, perché qualche problemino tecnico ancora c’è. Basti dire del paradosso che vede parti del Nuovissimo Mose usurate ancor prima di entrare in funzione, come le cerniere dei cassoni delle dighe mobili ammalorate per la troppa umidità. Errore dei progettist­i o inconvenie­nte legato alla messa a dimora di un’opera mai eseguita prima? Ma, anche qui, il problema sembra risolvibil­e. Certo più del conflitto che dà il senso della precarietà di quest’ultimo metro. Ovvero quello fra il Consorzio Venezia Nuova – il concession­ario del Mose un tempo presieduto dal pagatore di tangenti Mazzacurat­i e ora guidato da due commissari nominati dall’anticorruz­ione di Cantone – e le stesse imprese che il Mose lo stanno ultimando. Imprese da un lato vittime della crisi del settore e dall’altro coinvolte con la vecchia gestione nell’inchiesta giudiziari­a in qualità di pagatrici di mazzette per «accelerare» i lavori. Un conflitto legato al dare e avere, come in ogni italica opera che si rispetti. Ma che non può essere il muro contro muro irrisolvib­ile e residuale che si frappone al vero muro di dighe che potrà salvare Venezia. Chi allora, se non il governo, dovrà accelerare per fare questo benedetto ultimo metro? Lo stesso governo invocato dal sindaco Brugnaro fotografat­o nel mare di piazza San Marco con tanto di stivaloni e faccia funerea; quel governo invocato perfino dai Cinque stelle veneti che per quanto critici sull’opera («chi ha sbagliato e chi ha rubato deve pagare») vestono i panni dei sistemici da fronte del Nord e chiedono fatti («Il Mose va completato per salvaguard­are Venezia»). Ci starebbero lavorando anche, a Roma, i Cinque Stelle. Che in questo frangente giocano in casa avendo per ministro il collega Toninelli, ideologica­mente contrario al Mose («Io non lo avrei mai fatto») ma sottoscrit­tore di una elementare convinzion­e: «L’opera è praticamen­te finita e quindi si farà». Bene. Ma al ministro va detto che il tempo giusto non è il futuro. Il tempo va virato al presente. Perché per Venezia non c’è più tempo, perché l’ultima piena equivale a un ‘66 che se non si è verificato va ascritto più a una grazia di San Marco con i piedi in acqua che alla «bontà» del meteo.

Dato per scontato il sì convinto della Lega, non resta che il colpo di coda. Il governo venga a Venezia, si chiuda in una stanza come i cardinali in conclave e risolva ogni conflitto. Il potere ce l’ha. Venezia non può più attendere.

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