Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
«Io, viceprefetto lasciato solo dalle istituzioni e dalla chiesa»
Aversa: il sindaco urlava ai cancelli. Il ministero sbatteva giù il telefono
Era il 12 gennaio del 2017, quando di fronte all’allora pm di Padova Federica Baccaglini, Pasquale Aversa ammise candidamente, per la prima volta, di aver avvisato Ecofficina dell’arrivo degli ispettori sanitari. Le carte degli interrogatori sono ora nelle mani delle difese e per la prima volta emerge il racconto dell’allora Viceprefetto: «Nella città del Santo non li voleva nemmeno la Chiesa, il sindaco urlava ai cancelli, il ministero sbatteva giù il telefono. Soffiate? Altrimenti L’usl avrebbe chiuso gli hub»
«Quando una Usl mi chiede di fare un accesso (in un campo profughi, ndr), io mi sento in dovere di chiamare il gestore e di avvertirlo che ci sarà un controllo, perché voglio aver conto dell’esistenza o meno di problemi». Era il 12 gennaio del 2017, quando di fronte all’allora pm di Padova Federica Baccaglini, Pasquale Aversa ammise candidamente, per la prima volta, di ave ravvisato Ecofficina dell’arrivo degli ispettori sanitari. all’ epoca, il viceprefetto di Padova veniva sentito come semplice «persona informata dei fatti» nell’ambito della maxi-inchiesta sullo scambio illegale di informazioni tra funzionari prefettizi e la coop-pigliatutto che gestiva gran parte dei profughi del Veneto. Ancora non era indagato per reati che vanno dalla rivelazione di segreti d’ufficio alla frode nelle pubbliche forniture. Né tantomeno erano venute alla luce le intercettazioni-choc nelle quali il prefetto Patrizia Impresa (oggi a Bologna) gli ricordava che nella gestione dei migranti «ne abbiamo fatte di porcherie…».
Il verbale compare nelle oltre duemila pagine che costituiscono l’ossatura dell’indagine che, oltre ad Aversa, coinvolge un’altra funzionaria prefettizia, Tiziana Quintario, e i vertici di Ecofficina (oggi Edeco), compreso il suo patron Simone Borile. Documenti che, dopo la chiusura dell’inchiesta da parte della procura di Padova, sono ora a disposizione delle difese. E così, per la prima volta è possibile rileggere lo strano intreccio di relazioni nascosto dietro la gestione dei profughi del Veneto negli ultimi tre anni. Perché se in quel primo confronto con gli investigatori Aversa offriva una sponda alle tesi dell’accusa, è nell’ interrogatorio al quale si è sottoposto il 15 ottobre di quest’anno che l’allora viceprefetto di Padova ricostruisce ciò che davvero avveniva nell’ufficio territoriale del governo nei giorni più caldi dell’emergenza sbarchi. Un racconto intenso, a tratti perfino drammatico.
Le urla di Bitonci
Accompagnato dall’avvocato Maira Cacucci, quel giorno Aversa si trova di fronte il pm Sergio Dini (che ha ereditato l’inchiesta dalla collega Baccaglini) e i carabinieri che hanno condotto le indagini. Il funzionario ricorda di essere arrivato a Padova nel 2014 e «sono stato buttato subito sul tema profughi (…) nella prima decade del 2015 il livello emergenziale ha cominciato ad assumere dei numeri molto difficili, non bastavano gli immobili che avevamo (…) I primi di luglio mi sono ritrovato senza più avere un posto letto…». Così, quando il 2 luglio arriva un pullman con 33 migranti a bordo, la prefettura ordina all’autista di fermarsi all’interno di una ex base militare a due passi dal centro di Padova, in attesa di trovare degli alloggi liberi. «Ed è dentro in questa selva terribile che ho conosciuto per la prima volta il sito della Prandina». Quasi per caso, quindi, è nato uno dei più discussi hub del Veneto. «C’era il sindaco (Bitonci, ndr) fuori dai cancelli che urlava, credo. Siamo arrivati alle 8 di sera, a un certo punto si è presentato Borile e mi ha detto: “Ci penso io, ve li porto stasera nelle mie strutture. Organizzate questa Prandina e dopo li potete portare qui dentro”. E così la situazione si è sbloccata». Chi abbia avvisato il patron di Ecofficina dell’impasse in cui si era cacciata la prefettura, resta un mistero: «Non me lo ricordo dice Aversa - erano momenti così concitati, con una manifestazione fuori con le bandiere verdi che mi urlavano…». Di certo, ne parla subito al prefetto Impresa e capiscono che non c’è tempo per indire una gara d’appalto. «Ho avuto il via libera da lei per l’affidamento diretto a Ecofficina per due mesi». Nel giro di poco, all’interno della base finiscono centinaia di migranti. Fu una manna per la prefettura: «Alla Prandina finalmente ero a casa mia (l’area era del Demanio, ndr) e potevo lasciar fuori anche il primo cittadino di questa città». E quando la struttura è satura, la prefettura apre un secondo centro di accoglienza, stavolta a Bagnoli. Non c’era alternativa, giura Aversa. «Il mio unico obiettivo, che poi era quello governativo, era di accogliere. Sa quante volte abbiamo alzato la cornetta dicendo “basta, non ce la facciamo” sia alla prefettura di Venezia sia al ministero dell’interno? Sa qual era la risposta? Click! Queste erano le risposte da Roma». È un tema su quale il viceprefetto tornerà spesso, nell’interrogatorio, perché «bisogna stare dentro, per capire cosa vuol dire la gestione dei profughi». I funzionari erano lasciati soli, a obbedire all’ordine del governo di trovare dei posti letto ai migranti: «Io me li sarei portati a casa. Non c’era una persona, un ente, un’istituzione - me lo lasci dire - nella città del Santo perfino la Chiesa, uno straccio di aiuto… Io non ho avuto un aiuto da nessuno».
Tutto a Ecofficina
Anche Bagnoli fu affidata a Ecofficina, ma Aversa assicura: «Non facevo da ingrassatore del signor Borile». Il sostituto procuratore lo incalza: possibile non si fosse reso conto delle pessime condizioni di vita in cui si trovavano gli ospiti delle strutture. E il viceprefetto non fa una piega: «Non mi sono mai accorto che ci fossero delle carenze (…) Come faccio io a sapere che non c’è il personale, che non ci sono gli asciugamani, cioè quelle storie che ho letto dopo (nei documenti dell’inchiesta, ndr), come faccio a saperle?». Dice che la prefettura non inviò mai i propri ispettori perché non serviva, visto che lui stesso visitava i due hub, ma alla fine – riferendosi a Borile e alla funzionaria Quintario - ammette: «Col senno di poi, dopo quello che ho letto e ho visto le schifezze fatte da questi due delinquenti, mi chiedo: “ma dove ero?”». La procura è interessata anche a capire il livello di coinvolgimento del prefetto Patrizia Impresa, che non è iscritta nel registro degli indagati. Colui che all’epoca era il suo braccio destro, assicura che «io le esponevo le mie tesi e lei le approvava, insomma. L’ho sempre trovata al mio fianco (…) è sempre stata informata di tutto (…) il resoconto era quotidiano perché ovviamente il capo della struttura era lei, non è che io avessi tutta questa carta bianca». Ma spiega anche che, se di quelle «anomalie» scoperte dalla procura «non me ne sono accorto io, figuriamoci lei…».
Eppure è proprio Impresa a telefonargli nel dicembre del 2016 per dirgli che i carabinieri stanno andando a perquisire uno degli hub, e lo invita ad avvertire subito Ecofficina. «Una volta tanto, io Borile non l’avrei chiamato», ricorda. Però lo fa ugualmente (scoprendo che lui ne era già informato), e non si sorprende dell’ordine ricevuto perché «conoscendo Impresa, lei quando ha sentito “autorità giudiziaria” si è agitata, a lei sono venute in mente le cose più funeste in quel momento. Quindi è stata presa…».
Le soffiate
La parte più interessante dell’interrogatorio, è proprio quella relativa alle «soffiate» che riceveva Ecofficina. Come aveva già fatto lo scorso anno, anche il mese scorso Aversa ammette di aver avvisato Borile dell’arrivo dei tecnici dell’usl semplicemente perché «per me non era un segreto d’ufficio (…) Le carte, le decisioni da prendere su Bagnoli come nella Prandina non è che l’ha prese il signor Borile: lui era quello che cucinava la minestra. Allora, ci sta che a casa mia io chiami il signore che fa la minestra e gli dico “guarda che domani vengo con la Asl ma per discutere”». Qui si innesca un simpatico siparietto tra il viceprefetto e il sostituto procuratore Dini, che lo incalza: «E’ buona la minestra?». Risposta, sul filo della metafora: «Non ho mai mangiato: hanno mangiato cani e porci, io mai neanche uno spaghetto». Tradotto: non ho mai preso un soldo, da Ecofficina. Dini: «Io come padrone di casa telefono a Borile, che fa la minestra, per dirgli cosa? “Falla Bene la minestra perché domani arriva quello che la assaggia?”». Aversa prima prova a giustificarsi («Io non potevo sapere (…) il marcio l’ho scoperto dopo») ma il pm insiste: «Quindi avvertendo in anticipo Borile, che obiettivo intendeva raggiungere?»; e il viceprefetto a quel punto lo dice chiaramente: «Che la Usl non fosse messa in condizioni di chiudermi l’hub». In pratica la prefettura sapeva che, se gli ispettori avessero riscontrato delle irregolarità, i sindaci avrebbero avuto in mano l’asso decisivo per «sfrattare» i profughi. E al pm che gli chiede se secondo lui «era giusto informare Borile», Aversa non arretra di un passo: «Certo, per fare bella figura con la Usl. Nella consapevolezza che la Usl aveva strumenti e potere politico, soprattutto a Padova, per sbattermi fuori dalla sera alla mattina». Il magistrato insiste: «Quindi, per impedire che la politica prendesse delle iniziative che in qualche modo avrebbero portato a dei problemi di ordine pubblico, lei preferiva…». E qui Aversa conclude la frase, riprendendo la metafora precedente: «…avvertire il mio minestraio (…) Il potere dell’ordinanza dei sindaci, nel nostro ordinamento è terribile, non ne saremmo usciti più».