Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
I soldi spariti dei deportati e la sentenza: tutto prescritto
La causa degli ex soldati veneti bocciata in Cassazione: «Noi, traditi dallo Stato»
La Cassazione, con una sentenza pubblicata due giorni fa, respinge il ricorso dei reduci che nel 1943 furono deportati negli Usa e lavorarono come «collaboranti». Da allora aspettano di essere pagati, ma i soldi pagati dagli americani all’italia non ci sono più. «Tutto prescritto».
A Bruno Dalla Lana, trevigiano classe 1922, l’italia ha preso tutto. Gli anni belli della giovinezza, trascinati nell’inferno della guerra in terra africana e dei campi di prigionia. E i soldi che gli spettavano. Tanti soldi. «Tra interessi e rivalutazione, quasi un miliardo delle vecchie lire», ricorda il figlio Claudio.
Dalla Lana era uno dei 50mila militari italiani fatti prigionieri durante l’ultimo conflitto mondiale e inviati negli Stati Uniti. «Mio padre fu catturato dagli inglesi e rinchiuso in un campo di concentramento in Africa, in condizioni disumane. Quando lui e i suoi commilitoni furono consegnati agli americani, dovettero caricarli sulle navi all’interno di ceste, perché non erano neppure in condizioni di camminare». Dalla Lana finì in un campo di detenzione militare in Texas, e lì rimase anche dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943, quando Washington si ritrovò col problema di inquadrare quelli che fino a un attimo prima erano nemici e che, dopo la resa, s’erano trasformati in alleati. Per una superpotenza come gli Usa, ancora impegnata nello sforzo bellico necessario a schiacciare i nazisti, quella forza lavoro faceva comodo e quindi propose agli ex prigionieri di guerra italiani di lavorare per loro. Le chiamarono Italian Service Units, e vi aderirono circa 36mila detenuti che in cambio avrebbero percepito lo stesso stipendio dei soldati: poco più di due dollari. In realtà, i lavoratori italiani ricevevano solo 80 centesimi al mese, mentre tutto il rimanente finiva in un «fondo per i prigionieri» con la promessa che la somma accantonata sarebbe stata consegnata al termine del conflitto.
«Mio padre accettò e finì a lavorare in una fattoria, come bracciante. Ma quando tornò in Italia non vide un soldo», spiega Claudio Dalla Lana. E come lui la quasi totalità degli altri «collaboranti».
Dopo aver tentato inutilmente di scoprire che fine avessero fatto quelle somme, vent’anni fa un centinaio di loro decise di fare causa e si rivolse all’avvocato Livio Bernot e a sua figlia Grazia per citare in giudizio lo Stato e il Governo italiani, il Ministero della Difesa e quello dell’economia. In aula venne fuori che già nel 1948 gli Stati Uniti avevano consegnato al nostro Paese qualcosa come 26 milioni di dollari – una cifra enorme per l’epoca «come primo pagamento sulle somme dovute ai prigionieri di guerra italiani che lavorarono volontariamente per la causa alleata». Ma quei soldi non ci sono più. «Lo Stato ha tentato di sostenere che fossero stati effettivamente consegnati ai legittimi destinatari – spiega Grazia Bernot – portando come prova dei registri. Esaminandoli, risultavano aver intascato le somme perfino uomini che, in realtà, erano già morti da anni». Non s’è mai capito se il denaro sia stato usato per la ricostruzione o se una «manina» abbia falsificato i registri. Di certo, non è mai arrivato un centesimo a quei collaboranti delle Italian Service Units.
Dopo un primo passaggio a vuoto alla Corte europea per i Diritti dell’uomo - che rispedì il caso ai tribunali italiani - iniziò il processo civile a Roma, poi in Appello. Due giorni fa è stata la Cassazione a chiudere definitivamente la questione. Dei 96 reduci iniziali (tutti catturati a Tunisi dall’esercito inglese e successivamente consegnati alle forze armate americane, che nel maggio 1943 li deportarono negli Stati Uniti), erano rimasti soltanto in ventisei a tenere duro fino alla Suprema Corte. Anche perché nel frattempo sono quasi tutti morti e a portare avanti la causa sono i loro figli e nipoti.
Come Claudio Dalla Lana con i suoi fratelli, che da Montebelluna lottavano per quel miliardo di lire di papà Bruno. O come i discendenti di Pietro Beggio, di Mogliano Veneto e la figlia del veneziano Gino Chinellato. E poi c’è Nello Bertoncin, nato a Monselice, a 96 anni suonati è l’unico reduce veneto delle Italian Service Units che risulta ancora in vita.
«Credevamo davvero di poter vincere questa battaglia – spiega Dalla Lana – come giusto
” Il trevigiano Dopo l’8 Settembre mio padre accettò di lavorare per gli Usa: tornato a casa non vide un soldo
” L’avvocato Suona come una beffa da parte dello Stato, ai danni di chi rischiò la vita per il nostro Paese
risarcimento per le sofferenze patite da nostro padre. Invece l’italia l’ha tradito per l’ennesima volta: quando lo spedì in Africa a combattere senza un equipaggiamento decente, quando lo abbandonò nei campi di prigionia americani e ora, che gli nega i soldi che gli spettano».
Infatti non basta che, nella sentenza appena pubblicata, la Cassazione dica che è tutto vero: «Com’è incontroverso, gli Stati Uniti hanno corrisposto (il denaro, ndr) al governo italiano, il quale avrebbe poi omesso di provvedere al relativo pagamento nei confronti degli aventi diritto». Secondo i giudici «il ricorso va respinto» perché – per quanto possa sembrare singolare la storia – dal punto di vista giuridico «si è in presenza, in definitiva, di una del tutto ordinaria pretesa creditoria» e, di conseguenza, visto che sono trascorsi ormai 75 anni dall’armistizio, è da considerarsi definitiva la «prescrizione del diritto azionato». In pratica è passato troppo tempo. L’avvocato Grazia Bernot è sconfortata: «Suona come una beffa, da parte dello Stato, ai danni di chi rischiò la vita per il nostro Paese».