Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Batterio killer, primi test per i pazienti a rischio
L’ALLARME RICHIAMATI 10 MILA OPERATI AL CUORE Primi screening su trenta persone. Il Chimaera scoperto da un padovano
VENEZIA Batterio killer, via ai primi screening.
E’ padovano il medico che, nel 2004, ha scoperto e isolato il Mycobacterium Chimaera. Il batterio killer che ha infettato 18 pazienti operati a cuore aperto nelle Cardiochirurgie di Vicenza, Padova, Treviso e Mestre, uccidendone sei (quattro nel capoluogo berico, uno nella città del Santo e uno nella Marca). Si chiama Claudio Scarparo, ha lavorato per 18 anni al San Bortolo, è stato coordinatore del Centro di riferimento regionale per la diagnostica delle infezioni da micobatteri, poi è diventato primario a Udine e ora guida il reparto di Microbiologia dell’ospedale Dell’angelo di Mestre, che ieri ha ricevuto i primi due pazienti da sottoporre a esame specifico. «Nel 2004 a Vicenza abbiamo isolato un micobatterio non tubercolare che evidenziava caratteristiche simili a quelle dei batteri appartenenti al Mycobacterium Avium complex (Mac) — spiega Scarparo — e cioè l’avium e l’intracellulare. Allora disponevamo di sonde molecolari non evolute come quelle odierne, perciò per alcune il nuovo micobatterio era un Avium, per altre un intracellulare. Allora abbiamo inviato i ceppi individuati ai colleghi dell’ospedale Careggi di Firenze, che ne avevano isolati altri. Li abbiamo sequenziati e valutati, decidendo di chiamare Chimaera il nuovo micobatterio, che aveva alcune caratteristiche dell’avium e altre dell’intracellulare».
La scoperta è stata pubblicata: il Chimaera non è un micobatterio patogeno convenzionale ma un «opportunista», cioè colpisce se ne ha l’occasione, altrimenti resta nell’ambiente. Ma si può combattere? «Si contrasta con un cocktail di antibiotici — precisa Scarparo — e la sua resistenza agli stessi dipende dal ceppo e dal sito dell’infezione. Si tratta comunque di terapie lunghe e non sempre rispondenti se il sistema immunitario del paziente è compromesso o l’infezione è stata scoperta in ritardo». «Il Chimaera cresce molto lentamente e quindi la diagnosi non è semplice — aggiunge il professor Giuseppe Marasca, ricercatore dell’istituto di ricerca e cura a carattere scientifico per le Malattie infettive e tropicali «Sacro Cuore» di Negrar —. Non ne sa ancora molto, inizialmente è esploso nei pazienti con Hiv e ora può colpire un soggetto operato a cuore aperto ogni 10mila interventi. I casi sono pochi perciò è difficile mettere a punto un protocollo definitivo per trattare i pazienti infetti, così com’è difficile stabilire se i decessi siano attribuibili solo al Chimaera o anche alle condizioni generali del malato. Fatto sta che l’allarme non poteva scoppiare in un periodo più sfavorevole — avverte Marasca — cioè all’inizio della stagione influenzale, quando i sintomi di stanchezza, febbre e sudorazioni indotti dal batterio possono essere confusi con quelli scatenati dal virus. E’ bene che gli ospedali si attrezzino per una diagnosi veloce nei casi sospetti».
Impresa ardua, visto che la Regione ha disposto di richiamare 10mila soggetti ai quali è stata impiantata la protesi valvolare tra il 2010 e il 2018 nelle quattro Cardiochirurgie coinvolte e attaccate dal Chimaera perché annidato in un dispositivo utilizzato in sala operatoria per riscaldare o raffreddare il sangue del paziente in circolazione extracorporea. Di questi 10mila, 4500 hanno subìto l’intervento al San Bortolo, perciò l’usl 8 Berica ha attivato per loro da lunedì scorso il numero verde 800.277.067, che riceve venti telefonate al giorno. E sono già una ventina i pazienti che hanno chiesto di essere sottoposti all’emocoltura per capire se siano stati infettati o meno. Altri quattro saranno trattati in Day Hospital al Ca’foncello di Treviso, che ha messo a disposizione un ambulatorio dedicato, due si sono sottoposti al test a Mestre e altri lo saranno in Azienda ospedaliera a Padova. Che sta richiamando tutte le persone operate di valvola cardiaca o bypass negli ultimi otto anni. Oggi in Regione si farà il punto della situazione, anche perchè, sostituite le macchine infette della Livanova Deutschland Gmbh con quelle della francese Marchet, ora gli ospedali interessati dovranno risolvere un altro problema. Logistico.
«Dovremo capire come gestire l’uso degli strumenti diagnostici, il cui numero non è tarato per affrontare un carico di lavoro simile in tempi tanto rapidi — spiega il dottor Scarparo —. Per capire se un paziente è infetto ci vogliono 42 giorni, tempo necessario al batterio a crescere, e se ci troveremo davanti migliaia di provette da inserire in incubatori in buona parte già occupati da quelle di altri malati per diverse analisi, non sapremo come fare. Lo spazio non è infinito. Noi abbiamo già contattato l’azienda produttrice degli incubatori per capire se sia in grado di fornircene un altro e nel frattempo potremmo sottoporre a screening prima i pazienti che già denunciano i sintomi provocati dal micobatterio e posticipare l’esame microbiologico agli altri, asintomatici».