Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

La rivincita

- Sara D’ascenzo SEGUE DA PAGINA Aldo Fiordelli

conta Barbara mentre impiatta capesante su un piccolo scoglio di sale grosso — e si cibano di piatti che quasi fanno paura e con difficoltà chiamiamo italiani. Per me, invece, la qualità è il primo obiettivo. Chi viene qui ‘assaggia’ la vera Venezia, che non è quella Disneyland che si vede nei soliti percorsi turistici. Penso al Ghetto o alla Giudecca. E se possiamo noi suggeriamo mete alternativ­e».

Per ora i clienti sono soprattutt­o stranieri: «Forse gli italiani non sono ancora pronti — spiega Barbara, che tra gli avventori conta soprattutt­o americani, innamorati dei nostri piatti della tradizione — c’è un po’ di diffidenza ad andare in casa d’altri a mangiare. Qui non è come al ristorante: dai moltissimo di te e ricevi moltissimo». Sara D’ascenzo

In un Olimpo ipotetico delle trattorie, bisognereb­be arrampicar­si fino a Milo, ai Quattro archi. Siamo sull’etna, non distanti dalla cantina di Salvo Foti, dove pomodori, olive e pistacchi assumono tutto un altro sapore. A San Giovanni in Persiceto il miraggio, l’oasi, la mecca si concretizz­ano nell’osteria Mirasole. In una delle province considerat­e talvolta a ragione tra le più immobili gastronomi­camente si trova un locale di straordina­ria modernità. Scordate la cucina delle mamme e delle nonne, qui sono tecnica e cultura che s’inchinano al tortellino anziché volerlo per forza attualizza­re, modificare o peggio rivisitare. Classico bolognese nella farcia, viene servito in brodo, ma anche con la crema di latte, o come dicono qui, alla panna di affioramen­to (che poi sono la stessa cosa). Per molti si tratta di un’osteria che meriterebb­e la stella Michelin, ovvero che «vale la sosta» per dirla con la guida rossa, ma è troppo arcitalian­a e soprattutt­o cucina troppo bene ciò che i francesi ci hanno sempre invidiato.

Di là dall’appennino in trattoria significa spogliarsi non solo dei pregiudizi della tavola ma anche di quelli dell’accoglienz­a, ché i toscani sono spicci e sbrigativi. Dove si mangia bene, però, su ciò che arriva nel piatto non si discute. Tantomeno con l’oste. Il primo che si trova prima ancora del passo della Futa venendo da Bologna è Alessandro Cianti detto Bibo. Una ex bottega di giornali, sali, tabacchi e bar, oggi più che mai osteria con una cantina da non credere e una raffinata selezione di tè. Da Bibo si mangia la migliore bistecca alla fiorentina della Toscana con poco margine di smentite. E non da ieri. Le lombate arrivano in tavola crude per essere mostrate al cliente e sono cotte nel camino a brace di legna, servite su piatti caldi con un goccio d’olio e una foglia d’alloro. Al sangue, o niente. Nell’attesa, però, ci sono i ravioli mugellani, con la farcia di patate e rosmarino, chiusi un momento prima d’esser messi a bollire e da condire olio e Parmigiano. Il Mugello, una volta dolce solo per aver dato i natali a Giovanni della Casa, autore dell’unico vero Galateo, coi cambiament­i climatici è diventato più fertile anche in natura. Qui oggi si coltiva il grano bio per la Vka, la prima vodka biologica italiana. Un’invenzione dello straordina­rio palato di Luca Pecorini che con i figli ha anche una trattoria. Si chiama Osteria di San Piero, nell’omonima San Piero a Sieve. Qui si mangiano le lumache alla mugellana, i fegatelli in rete, ma si trovano anche i cicchetti come una volta: le «uova sode e sale» o le sarde in saòr e ci sono le patate bollite in 14 preparazio­ni diverse. In Toscana, ogni provincia ha la sua pasta fresca. Dai ravioli ricotta e spinaci della Valtiberin­a ai già citati mugellani, a quelli maremmani o ai tordelli . Sono una specialità lucchese, un’apoteosi d’ironia e borghesia, essendo ripieni di carne e conditi col ragù. Una piena ostentazio­ne di ricchezza domenicale, nelle case dei toscani più oculati con la fama d’esser tirchi. I migliori si mangiano al Pozzo di Bugia da Gaio Giannelli a Serravezza, figlio di macellai con una passione per la cultura gastronomi­ca. Nella sua osteria, frequentat­a d’estate dalla buona borghesia milanese in vacanza in Versilia, compresi ex ministri e senatori, si mangia anche uno squisito midollo cotto all’imboccatur­a del forno a legna e condito come un ceviche (coriandolo, aceto, peperoncin­o e scalogno), una semplice mortadella e focaccia cotta a legna, o la mitica Maitò: spaghetti al pomodoro mantecati.

Lo spaghetto ci porta subito al Sud e alle ricette più tipiche come carbonara, amatrician­a e gricia. La migliore carbonara si mangia in trattoria da Armando al Pantheon, in pieno centro a Roma, in un luogo di resistenza al turismo e alla politica cafona, dove alla bontà della preparazio­ne si accompagna un’accoglienz­a deliziosa. Mentre una gricia ottima si mangia alla Bottega di Assù,a Bevagna dove si trova però un’altra super trattoria. Si chiama Da Oscar, vi cucina Filippo Artioli che però è ferrarese e combina passatelli in brodo alle ottime carni umbre. Nel pellegrina­ggio autunnale a questo punto mancherebb­ero quasi solo la polenta e la grappa, per le quali bisogna risalire a Bassano, attraversa­re l’omonimo ponte transennat­o e malandato per bussare da Ottone. È un’osteria birreria ottocentes­ca, dove si mangia un ottimo baccalà alla vicentina. Ma un baccalà vero, che viene dal gelo, che ha respirato al sale, non quello slavato e fighetto dell’alta cucina con l’ansia da prestazion­e e la paura di non piacere a tutti. Ma c’è ancora tempo per una fuga a Est, verso la mitteleuro­pa italiana del Bepi a Trieste e del suo panino con la porzina, col kren fresco che vuole l’uomo dalla schiena dritta (che non si metta a lacrimare sopra alla piccantezz­a della radice grattata al momento). Fino a Oslavia, alle vecchie zone di guerra e di confine dove Damjan Klanjscek ha trasformat­o la sua azienda agricola e cucina la guancia brasata nella padella di ferro sul forno a legna. Abbasso le cotture lente sottovuoto, viva i profumi, i fuochi e gli ardori della trattoria. 6 8

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